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martedì, Mag 19

The Last Dance ha portato i documentari sportivi a un altro livello



Da Wired.it :

La docu-serie dedicata a Michael Jordan è finita ieri. È stata la più vista di sempre su Netflix in Italia. Ed è giusto che sia così: seguire quelle due puntate alla settimana è stato come partecipare a un grande evento pop collettivo, a un’attesa messianica stile Game of Thrones

di Patrizio Ruviglioni

Il primo ringraziamento è per LeBron James: non fosse stato per il suo post su Twitter – e per tutta la sollecitazione social delle altre star del basket nei giorni prima – avremmo dovuto aspettare ancora un po’ per vedere The Last Dance, la docu-serie di Espn su Michael Jordan e i Chicago Bulls. Invece Netflix ha bruciato le tappe. E se la quarantena è stata vagamente più sopportabile, il merito è anche di quei due episodi a settimana che, dal 20 aprile a ieri, ci hanno riportati sul parquet, nell’Nba degli anni ’90. Protagonisti, ovviamente, MJ e la sua ossessione per la vittoria, ma anche compagni e rivali iconici di quell’epopea. Ecco: seguire quelle puntate – insieme con il resto del mondo, e rigorosamente dilazionate, un po’ alla volta – è stato come partecipare a un grande evento pop collettivo, mentre gli standard del documentario sportivo salivano definitivamente a un altro livello. Ma andiamo per gradi.

Un altro livello, appunto, perché un prodotto del genere finora non si era mai visto all’interno dello storytelling sportivo. Con il pretesto di raccontare quell’ultimo ballo, ovvero il campionato 1997-1998 con cui la squadra avrebbe potuto celebrare il record di sei titoli, il regista Jason Hehir ha ricostruito – mantenendo sempre centrale il ritratto di MJ – un universo di personaggi e situazioni in maniera capillare, studiandone la psicologia e le dinamiche relazionali, grazie soprattutto alla rigorosa, lenta (parliamo comunque di 10 puntate da poco meno di un’ora l’una) timeline, che scandisce in maniera antologica le tappe di questo viaggio.

Perché se il focus rimane sulla stagione dell’addio, le immagini inedite dei Bulls di quell’annata – girate all’epoca dalla Nba Entertaiment, per una sorta di dietro le quinte – si mischiano con decine di filmati di repertorio e interviste ad hoc. Così, quello che doveva essere solo il racconto di un campionato diventa una storia vera, che in quelle ultime partite torva un microcosmo di spunti da sfruttare per riconnettersi prima all’infanzia di MJ, poi al primo titolo di Nba, al rapporto con il padre, alla sua ossessione per la vittoria. In questo senso, quindi, The Last Dance fa un passo avanti rispetto agli altri documentari anche a livello di trama, sviluppando un impianto articolato, stratificato, che prosegue nei fatti della stagione 1997-1887 e nel frattempo attraversa anche i ’70 e gli ’80, arrivando alla costruzione del mito (e del brand) Jordan, al ritiro del 1993 e al ritorno del 1995. E, nel farlo, si avvale delle ricostruzioni dello stesso cestita, ma anche di interviste-chiave a compagni, allenatori, giornalisti, esperti e appassionati più o meno noti – Obama su tutti.

Del resto era chiaro dalle prime puntate: questa è una vicenda epica, cinematografica pur senza il bisogno di un copione, e della quale vale la pena approfondire tutti i personaggi che ne hanno preso parte magari grazie ai loro stessi contributi, dagli esterni come Magic Johnson a icone dei Bulls come il secondo violino Scottie Pippen (alla cui infanzia difficile è dedicata una puntata) e il “pazzo” Dennis Rodman, passando per il coach Phil Jackson e per quello che pare a tutti gli effetti il villain della faccenda, il dirigente Jerry Krause. Sembra il cast di un film, in effetti, e la regia sfrutta questa ricchezza irripetibile di personalità e avvenimenti per ricostruire quegli anni proprio come in una pellicola vera e propria, con tanto di suspense e colpi di scena. Di fatto, chi ignora il finale della stagione 1997-1998 rimane con il fiato sospeso fino al termine della docu-serie.

Ma intanto, comunque, si lascia trasportare come tutti dalle parole di Jordan, cerimoniere e unico, autentico protagonista di The Last Dance, in un ritratto profondo del suo carattere a cui contribuiscono – appunto – immagini inedite, filmati di repertorio degli anni precedenti e interventi degli ex compagni stessi, a chiarire e a svelare i vari retroscena. Perché questa è, sì, la storia di uno dei più grandi sportivi di sempre, ma anche e soprattutto la scalata verso il successo di una popstar, che negli anni ’90 era un brand, una divinità verso cui le pubblicità dedicavamo slogan come “Be like Mike”. E Mike, appunto, qui è ritratto, studiato, compreso. Magari in maniera un po’ indulgente su alcuni lati in ombra della sua immagine (i problemi con il gioco d’azzardo, per esempio), ma sempre ragionando sulle crisi, gli infortuni, gli attriti, le rivalità. E dall’altro lato, intanto, c’è il suo perfezionismo, l’ossessione per la competizioni e l’essere “un vincente”, in un dualismo star-atleta che diventa paradossale durante la realizzazione di Space Jam, quando la Warner Bros. gli costruisce una palestra “su misura”, mentre lui trascorre quasi venti ore al giorno fra riprese e allenamenti. “Be like Mike”, appunto.

Alla fine, come lo stesso Jordan, anche The Last Dance è un prodotto pop, nel senso che ha il potenziale per piacere a tutti in maniera trasversale. Gli esperti di basket, infatti, pur conoscendo a memoria quelle partite non possono che rimanere meravigliati dalla quantità di materiale di repertorio recuperato, oltre che dal livello di approfondimento generale; i profani, invece, si appassionano alla struttura da film, restano con il fiato sospeso, e nel frattempo si sorprendono di fronte alla bellezza di certe giocate, ai contorni epici delle vittorie dei Bulls. Per questo, dicevamo, seguire tutti insieme questa docu-serie puntata dopo puntata è stato come partecipare a un rituale collettivo, a un’attesa messianica stile Game of Thrones. Coinvolti al punto, magari, di fingere di non sapere neanche come finisce, l’epopea di MJ sul parquet.

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[Fonte Wired.it]