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mercoledì, Ago 14

The Nest, l’horror che non vuole essere un horror


Il film del terrore di De Feo non spaventa come vorrebbe il genere, ma ha un universo ben congegnato entro cui si svolge la storia

La borghesia è un mondo isolato, è una gigantesca villa che chiude tutto il resto fuori e cerca di vivere segregata in rituali, tempi, abbigliamenti, regole e dinamiche interne. La borghesia è un nucleo rigido che non ammette scampo e vede di cattivo occhio qualsiasi contaminazione, ingerenza esterna e qualsiasi invasione di chi non appartiene a essa, a meno che non sia un servitore. La borghesia è pronta a tutto per promuovere se stessa, prolungare il proprio mondo, preservare le sue regole come se da queste dipendesse il senso stesso della vita. La borghesia infine pensa la propria come l’unica possibile maniera di vivere, l’unica degna di essere chiamata tale ed essere preservata.

Nessuno in tutto The Nest dice queste cose, né nulla nel film vi fa riferimento diretto, tuttavia è una eco che rimbalza in tutte le pareti della grande villa in cui è ambientato questo horror italiano, che poi horror non proprio è.

C’è una famiglia non grande, ma piena di ramificazioni che vive nel maniero; c’è un quasi adolescente, Samuel, che non ha l’uso delle gambe e viene educato secondo rigidi dettami, a cui viene mentito ripetutamente per impedire che ingerenze esterne lo contaminino; e poi c’è il resto del mondo, gli altri, che vivono fuori dalla villa, tra cui Denise, coetanea di Samuel che sveglia in lui qualcosa di nuovo. Lì, oltre il cancellone e il muro di cinta, non è chiaro cosa ci sia. Samuel sa solo che non ci deve andare. La sua è una vita borghese nel senso stretto del termine. 

Da subito Roberto De Feo cerca di giocare con le aspettative dello spettatore. Nella sua testa fa di tutto per suggerire i misteri di altri film, per fare in modo che chi guarda pensi in certi momenti di stare vedendo un film che si ispira a The Others, in altri uno che imita The Village e in altri ancora uno che prende di petto l’horror domestico contemporaneo della Blumhouse. In realtà il suo vero genere è ancora un altro, lo scopriremo solo nell’ultima inquadratura, e capiremo che in fondo non era davvero importante saperlo prima.

L’importante per De Feo non è nemmeno mettere davvero paura perché di scene spaventose ce ne sono un paio a dir tanto (ma quelle due funzionano bene e danno un po’ di carburante al film quando ne ha bisogno). Il suo obiettivo è semmai raccontare una situazione oppressiva e misteriosa.

Samuel, il protagonista, non ha niente di cui aver paura. Siamo noi ad averne, perché sappiamo sempre un po’ più su quello che gli viene fatto e gli viene nascosto. Samuel non sarà mai al centro di sequenze in cui è terrorizzato (e questo forse è uno dei problemi del film), siamo noi che temiamo sempre cosa potrà accadere.

L’idea c’è ma De Feo impiega davvero troppo tempo a far tutto. The Nest ci mette troppo a gettare le basi dei suoi presupposti, troppo a illustrare i personaggi e le forze in campo, troppo a innescare la trama e decisamente troppo a tendere l’intreccio. La decisione è quella di lavorare di atmosfera ma il ritmo compassato con il quale il film lentamente snocciola le sue carte gioca contro di lui, perché allora servirebbe una capacità decisamente superiore e un mistero decisamente più angosciante per tenere viva l’attenzione.

Invece in The Nest tutto è troppo affidato al buon cuore dello spettatore. Invece che prenderlo per la collottola e metterlo di fronte a una situazione obiettivamente ben congegnata, il film gliela illustra come se gli stesse vendendo una casa, con calma e gentilezza. Anche quando il colpo di scena più grande introduce un oggetto che non pensavamo appartenesse al tempo in cui si svolge il film, non sentiamo quel calcio in gola che scatena mille teorie in testa, perché è tutto molto morbido e innocuo.

Anche l’ottima ambientazione che nel finale scopriamo essere perfettamente funzionale agli intenti della storia, è ben sfruttata ma senza quella cattiveria, quella ricerca spasmodica del risultato che forse il genere del film avrebbe necessitato. Evidentemente Roberto De Feo non era in cerca di un horror puro, ma di qualcosa che avesse i toni e la sporcatura del terrore, che non ne abusasse né lo concentrasse in poche scene, ma lo spargesse lungo tutto il minutaggio del film perché lo spettatore se ne cibi un po’ alla volta. Tuttavia il risultato, sebbene ben fatto, non ha quell’angoscia in grado di sostenere lo sbocciare un di un sentimento o in grado di tenere avvinti fino alla fine.

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