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sabato, Giu 22

Tranquilli, provare pena per un robot malmenato è del tutto okay


Un video (falso) di un robot Boston Dynamics vittima di soprusi fa il giro del web: cosa ci porta a provare empatia per le macchine – o a odiarle?

Il video (fake) dell’attacco al robot Boston Dynamics (video: Corridor Digital)

Si chiamava HitchBot ed era un grazioso robot con comici arti tubolari. Doveva fare il giro degli Usa in autostop, da cui il suo nome, affidandosi alla cortesia di umani sconosciuti. L’esperimento era andato alla grande in Canada, Germania e Paesi Bassi. Il suo tour statunitense durò appena due settimane: nell’agosto del 2015 fu trovato decapitato e mezzo distrutto attorno Philadelphia.

Il vandalismo assume note particolarmente amare e profonde quando si sfoga su oggetti pensati per sembrare umani – o umanoidi.

Se HitchBot non era che un secchio con degli adorabili tubicini e un coperchio in testa, i robot del futuro – pardon: d’oggi – sfoggiano forme e movimenti sempre più umani. Anche per questo lo scorso weekend un video è diventato virale, mostrando un robot della Boston Dynamics che veniva malmenato e – passatemi il termine – torturato dai suoi creatori.

Prima di proseguire, una doverosa precisazione: il video in questione, come spesso succede su internet, è un falso e il robot è stato aggiunto in Cgi. La burla è opera dello studio Corridor Digital, attivo dal 2010 e già noto per trovate simili. Se la clip era un falso di qualità, però, l’effetto che ha dato molte persone era vero: la pietà per il povero pezzo di ferraglia che veniva picchiato dai dipendenti dell’azienda.

Prima di chiedersi da dove nasca un sentimento simile, è meglio soffermarsi sui fattori che spingono esseri umani a prendersela con i robot. Perché non è solo HitchBot: quando nel 2017 la città di San Francisco annunciò l’utilizzo di robot per pattugliare i senzatetto della città, le reazioni furono immediate, e portarono al vandalismo nei confronti di queste macchine. In quel caso la rabbia diretta ai robot servì a sfogare il senso di ingiustizia nei confronti dell’ingiustizia sociale ed economica espressa dalla decisione, specie in una città dove la disparità economica tra nuovi ricchi e povertà assoluta è in aumento da anni.

Cosa si nasconde dietro questa pulsione? Il rifiuto della macchina o il timore che quei robot ci rubino il lavoro, per poi perseguitarci pure nelle strade? Secondo la neuroscienziata Agnieszka Wykowska dell’Istituto italiano di tecnologia, il modo in cui gli umani praticano violenza sulle macchine ricorda molto quello che usano per gli altri umani, e potrebbe avere radici nelle dinamiche del branco. In un’intervista al New York Times, l’ha definita “la deumanizzazione dei robot, anche se non sono umani”.

HitchBot fu del resto decapitato. Altri furono fatti a pezzi o coperti di feci, come nel caso di San Francisco. E la clip ritoccata della scorsa settimana mostrava scene da rissa alla Bud Spencer e Terence Hill, con tanto di sedie spaccate in testa. Simili a noi ma inermi; inoltre, non possono provare dolore: la tentazione di accanirsi sui robot, per molte persone, è troppo grande.

Le cose cambiano quando al robot viene dato un nome umano. È sempre Wykowska a raccontare come forme di violenze sui robot siano presenti anche tra bambini molto piccoli, che cambiano comportamento quando alla macchina viene dato un nome comune. La macchina è ancora inerme e diversa da noi, ma acquisisce somiglianza. Ed è subito empatia.

Secondo il paper “Who is afraid of the humanoid?” (pdf) di Frédéric Kaplan, docente della École polytechnique fédérale de Lausanne, il fenomeno è perlopiù riconducibile alla cultura occidentale ed europea. Le ragioni sono infatti legate a tradizioni e archetipi come il Golem e Frankenstein, tutte storie su umanoidi artificiali che inevitabilmente sfuggono al controllo umano. È questa divisione tra noi e loro, tra umani e non umani, a ribollire di potenziale odio nei confronti delle macchine: un fenomeno occidentale che, nota Kaplan, nella cultura nipponica è ad esempio assente. Secondo il professore, la visione occidentale divide nettamente il naturale dall’artificiale, mentre in quella giapponese non sono presenti divisioni, creando “una rete di esseri” al servizio dell’altro. Non è un caso che in Giappone siano attivi da tempo robot umanoidi d’ogni tipo, anche per la cura della persona o l’accompagnamento degli anziani.

Ciò non spiega chi ha gettato sassi alle macchine autoguidanti di Waymo (Google) in Arizona, però, ad esempio. C’è da dire che questo tipo di gesti ha ragioni socio-economiche più chiare, riconducibili all’impatto che la robotizzazione (e digitalizzazione) ha già avuto nel mercato del lavoro, rendendo figure molte professionali meno ricercate, se non obsolete. Più l’attività offerta dalla macchina diventa umana, come la guida di una vettura, più la minaccia lavorativa si fa evidente. Milioni di persone si guadagnano da vivere guidando tir, camion, auto e trattori; milioni di persone sono pronte a odiare macchine simili più di quanto abbiano mai odiato un innocuo robottino che provava a fare l’autostop negli Usa. Il problema è che questa volta, potremmo non avere molta pietà di loro.

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