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mercoledì, Gen 08

Trump, una pedina impazzita sullo scacchiere mondiale


(Foto: Alex Wong/Getty Images)

Due basi attaccate con 22 missili balistici Qiam 1 e Fateh: 17 sull’enorme compound di Ayn al Asad, a 230 chilometri a Ovest di Bagdad, altri 5 su Erbil, nel Kurdistan iracheno. Dove si sono messi in salvo nei bunker anche 600 soldati italiani. La reazione dell’Iran per l’assassinio del potente generale Qasem Soleimani è stata rapida, per certi versi obbligata, perfino imprecisa – pare che diversi missili non siano andati a bersaglio – ma appunto necessaria. Sul conto dei morti non c’è alcuna certezza: si parla di 80 vittime ma nessuna fonte attendibile sembra averne confermato il numero e le nazionalità.

In mattinata le parole dell’ayatollah Khamenei e del presidente Rouhani hanno accompagnato il raid notturno. Il primo: “Gli americani devono lasciare la regione”. Il secondo: “Taglieremo le gambe agli Stati Uniti”. Come sempre meno propagandistico Mohammad Jacad Zarif, ministro degli Esteri e uomo del dialogo: “Non vogliamo l’escalation verso la guerra, ma ci difenderemo contro l’aggressione” ha scritto su Twitter. Definendo l’attacco una “misura proporzionata di autodifesa”.

Cosa succederà ora? Nessuno può dirlo. Per l’instabilità di entrambi gli attori in campo, che sembrerebbero marciare verso una guerra che nessuno dei due vuole e che in fondo a nessuno conviene. A giudicare dai toni delle reazioni su Twitter, Donald Trump sembrava quasi attendere la risposta di Teheran. E d’altronde le installazioni statunitensi erano in allarme. Il punto è che non ha una strategia definita: è un presidente dalla politica estera schizofrenica. Si muove su ragioni propagandistiche o di opportunità (basti pensare al processo per l’impeachment, che è guarda caso ripreso proprio il 7 gennaio) e soprattutto nella morsa della duplice direzione che ha fornito alle sue azioni sia dentro che fuori dai confini: da una parte la forte volontà di isolamento, di disimpegno dalle “guerre senza fine” mediorientali, d’altronde la sua promessa in campagna elettorale. Dall’altra l’approccio da ipertrofico comandante in capo, al vertice di un paese che dispone dei “migliore esercito del mondo” e un certo gusto per le sfide impossibili, vedi alla voce Kim Jong-un. L’esempio siriano dell’aprile 2018, col bombardamento mirato ai siti dove pare si preparassero armi chimiche e poi il tentato ritiro delle truppe, in un continuo braccio di ferro col Pentagono, è un altro caso lampante di questa doppia faccia che neanche oggi consente di tracciare una linea chiara sui prossimi passi.

Nell’immediato gli Stati Uniti rimarranno dove sono, a meno che la tensione non salga ulteriormente. Trump potrebbe prendere la palla al balzo, disimpegnandosi davvero, evitando quelle “ritorsioni sproporzionate” di cui aveva parlato nei giorni scorsi. Al contempo gli iraniani potrebbero sfruttare questa fase per colpire più pesantemente gli Usa e i loro alleati, in particolare Israele dal Libano, ma non solo. Chi rischia l’impasse è la coalizione anti-Isis lanciata nel 2014 e le operazioni di addestramento delle forze locali decise nel 2018: è evidente che quelle iniziative Nato sarebbero agli sgoccioli, se la situazione dovesse precipitare. Difficile pensare di poter proseguire dislocando in continuazione contingenti con regole d’ingaggio del tutto diverse da quelle di una guerra, per quanto asimmetrica e trasversale, in giro per la polveriera Iraq. In Iraq, oltre ai 926 militari italiani, ci sono infatti 350 australiani, 350 dei Paesi Bassi, 500 canadesi, 400 britannici, 120 tedeschi, 160 francesi e alcuni paesi hanno già spostato parte di questi uomini in Kuwait o Giordania.

In fondo l’ha spiegato lo stesso Trump: “Non è questo il momento giusto ma a un certo punto vorremmo andarcene. Prima voglio essere rimborsato di tutti i costi che abbiamo sostenuto. Ero sempre stato contrario ad andare in Iraqha spiegato. Eppure l’idea di consegnare il paese all’assoluta influenza iraniana, più di quanto già non sia, non può lasciarlo tranquillo né costituire un esito confortante per la sua immagine. Intanto nella regione, fra rinforzi inviati negli ultimi giorni anche in partenza dalle basi in divisioni, bombardieri strategici B52 e altri mezzi, gli Usa potranno disporre di ben 80mila uomini e diversi scenari. Ma la divisione ai vertici, la mancata sintonia con le indicazioni del Pentagono, il già citato istinto isolazionista, le sfide dell’anno elettorale rendono situazioni come quelle che si stanno verificando nel Vicino Oriente impossibili da decrittare.

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