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mercoledì, Dic 09

Tutte le volte in cui l’Egitto ha provato a ostacolare la verità su Giulio Regeni



Da Wired.it :

A quasi cinque anni dalla scomparsa del ricercatore friulano, le autorità egiziane continuano nella loro operazione di depistaggio e hanno annunciato di voler chiudere ufficialmente il caso Regeni

(foto: Stefano Montesi/Corbis/Getty Images)

Il 26 gennaio del 2016 iniziava la storia della morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dell’università di Cambridge ucciso al Cairo, dove si trovava per completare una tesi di dottorato sui sindacati indipendenti egiziani. A quasi cinque anni di distanza dalla sua sparizione – e dal successivo ritrovamento del corpo, avvenuto il 3 febbraio dello stesso anno lungo la superstrada che collega Il Cairo ad Alessandria – su quella storia non è ancora stata scritta la parola fine, lasciando aperto un caso giudiziario che, ad oggi, presenta ancora numerosi punti oscuri.

Nei giorni scorsi il capo della procura di Roma, Michele Prestipino, e il procuratore generale d’Egitto, Hamada al Sawi, si sono dati appuntamento in videoconferenza per tirare le somme sullo stato delle rispettive indagini, un incontro che ha fatto emergere una volta ancora l’insanabile distanza tra le parti: le indagini preliminari italiane puntano il dito contro cinque esponenti dei servizi segreti civili – irrintracciabili, dal momento che l’Egitto si rifiuta di fornire i loro indirizzi – mentre secondo l’alto magistrato egiziano a rapire e torturare fino alla morte Regeni sarebbe stata una banda di criminali comuni, i cui membri sono stati uccisi dalla polizia egiziana in uno scontro a fuoco. Una pista già ampiamente screditata dalle indagini condotte dalle autorità investigative italiane. 

È solo l’ultimo dei numerosi depistaggi con i quali il regime di al-Sisi ha cercato di coprire le sue responsabilità nell’omicidio di Giulio Regeni, un caso giudiziario che, per la rilevanza e la sfrontatezza dei tentativi egiziani di ostacolare le indagini, si è a più riprese trasformato in un vero e proprio caso diplomatico.

Gli ultimi sviluppi del caso Regeni

La procura di Roma non ha ancora depositato gli atti delle indagini preliminari sulla morte di Giulio Regeni, ma lo scorso 26 novembre il quotidiano Repubblica ha anticipato alcune delle novità presenti nel fascicolo. 

Innanzitutto ci sono due nuovi testimoni, che dichiarano di aver assistito al momento del rapimento di Regeni da parte di agenti della National Security, il servizio segreto civile egiziano (lo stesso che il 7 febbraio 2020 operò l’arresto di Patrick Zaki, appena sceso da un volo intercontinentale Bologna-Il Cairo). Secondo i testimoni, Regeni sarebbe stato fermato e trasferito in almeno due caserme diverse: la prima si trova in prossimità della metropolitana di Dokki – la stazione in cui, alle 19.51 del 25 gennaio 2016, le celle telefoniche agganciarono per l’ultima volta il cellulare di Giulio Regeni – mentre la seconda è una caserma utilizzata dalla National Security per interrogare i cittadini stranieri. 

Se confermate, le due testimonianze proverebbero la responsabilità diretta dei servizi segreti civili egiziani nel rapimento, nella tortura e infine nell’uccisione di Giulio Regeni. Sarebbe inoltre molto più difficile da sostenere la posizione del governo di al-Sisi, che attraverso il suo ministro dell’Interno, Magdy Abdel Ghaffar, l’8 febbraio 2016 negò ogni coinvolgimento degli apparati di sicurezza, dichiarando: “Quelle che leggiamo sui giornali sono insinuazioni. Non conoscevamo Regeni”.

La ricostruzione degli investigatori italiani

Oggi sappiamo che quelle dei giornali erano ben più che semplici insinuazioni. Secondo le indagini italiane, la condanna a morte di Regeni risalirebbe al mese di ottobre 2015, quando un ex giornalista di gossip diventato leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, Mohamed Abdallah, decise di tradire Regeni e di consegnarlo alla National Security. In quel periodo Giulio Regeni stava conducendo una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani e l’università americana del Cairo lo aveva messo in contatto proprio con Abdallah, che per Regeni era diventato in breve tempo una fonte privilegiata, tanto da averlo incontrato sette volte in poco più di due mesi

Per comprendere quanto sia delicato in Egitto il tema dei sindacati indipendenti, bisogna fare un passo indietro e tornare al 25 gennaio 2011, il giorno in cui iniziarono le proteste di piazza Tahrir. La rivoluzione egiziana che pose fine al trentennale governo di Mubarak fu infatti innescata da un movimento noto come “Sei Aprile”, nato qualche anno prima per guidare il grande sciopero nella fabbrica tessile di Mahalla al-Kubra. Lo sciopero, il primo ad avere successo nella storia del moderno Egitto, aprì la strada a un crescendo di insofferenza verso il governo e a richieste di riforme sociali che, col tempo, diventarono il carburante della rivoluzione. 

Quando nel 2013 un colpo di stato militare consegnò il potere ad Abd al-Fattah al-Sisi, comandante in capo delle forze armate egiziane e uomo d’apparato sotto la presidenza Mubarak, a questi fu subito chiaro che, per conservare lo status quo, sarebbe stata necessaria una stretta repressiva: il 28 aprile 2015 una sentenza dell’Alta corte amministrativa del Cairo rese illegale lo sciopero, reprimendo il sindacalismo indipendente con false accuse di terrorismo e sabotaggio. 

Per il regime di al-Sisi, dunque, Regeni era solo uno straniero che stava ficcando il naso nelle delicate questioni interne dell’Egitto e per questo motivo decise di attenzionarlo. Secondo gli inquirenti italiani, a ottobre 2015 Abdallah riferì dell’interesse di Regeni per il sindacalismo indipendente al colonnello Ather Kamal, ufficiale della polizia investigativa, che a sua volta condusse il sindacalista da due agenti dei servizi segreti civili, il colonnello Helmy e il maggiore Sharif. Fu il primo di diversi incontri e in uno di questi, il 5 gennaio, gli agenti chiesero ad Abdallah di utilizzare una telecamera nascosta per registrare Regeni. Nel gennaio del 2017 uno spezzone di quel filmato è stato trasmesso dall’emittente egiziana Sada El Balad e mostra Abdallah chiedere dei soldi a Regeni – parte di un finanziamento da 10mila sterline arrivato da una fondazione britannica, al quale il ricercatore aveva fatto accenno in un incontro precedente – che risponde di non poterglieli dare. 

Sono le ultime immagini note di Giulio Regeni, mentre tra l’8 e il 21 gennaio Abdallah e il maggiore Sharif si sentiranno al telefono per ben 18 volte. La sera del 25 gennaio 2016, nel quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir, Giulio Regeni uscì di casa per incontrare l’amico Gennaro Gervasio in un caffè del centro, alle 19.41 mandò l’ultimo messaggio alla sua ragazza e dieci minuti dopo il suo cellulare smise di esistere. Il cadavere del ricercatore sarebbe stato ritrovato solo nove giorni più tardi sul ciglio di una superstrada che squarcia il deserto, con accanto una coperta in uso agli apparati militari egiziani. Nonostante il volto sfigurato, le autorità egiziane confermarono l’identità del corpo pochi minuti dopo il suo ritrovamento.

Il 4 dicembre 2018 la procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati cinque ufficiali della National Security e dell’Ufficio investigativo del Cairo: il generale Sabir Tareq, il maggiore Magdi Abdlaal Sharif, il capitano Osan Helmy, il suo stretto collaboratore Mhamoud Najem e il colonnello Ather Kamal. Sono questi i nomi dei presunti responsabili della morte di Giulio Regeni contro cui la procura di Roma intende promuovere l’azione penale.

Le bugie dell’Egitto

Fin dall’arrivo in Egitto degli inquirenti italiani, nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 2016, le autorità locali si sono mostrate ben poco collaborative. Anche perché già due ore dopo il ritrovamento del corpo di Regeni il generale Khaled Shalabi, responsabile delle indagini, aveva dichiarato al giornale governativo Youm7 che “non c’è alcun sospetto crimine dietro la morte del giovane italiano, il cui corpo è stato ritrovato sulla strada desertica Cairo-Alessandria”. 

La prima pista battuta dagli investigatori egiziani è dunque quella dell’incidente stradale e per smentirla bisognerà attendere l’autopsia sul corpo del ricercatore, che rivela la frattura di un polso, delle scapole, dell’omero destro, delle dita delle mani e di quelle dei piedi, dei peroni e la rottura di numerosi denti. Una tortura indicibile, culminata con una singola torsione delle vertebre cervicali, al termine di un calvario durato nove giorni: decisamente non uno scenario che fa pensare all’incidente stradale. A febbraio 2017 il generale Khaled Shalabi è stato promosso a capo della polizia del Fayyum.

L’8 febbraio 2016, come detto, il ministro dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar dichiarò che Giulio Regeni non era persona nota agli apparati di sicurezza egiziani, definendo “insinuazioni” le informazioni riportate dalla stampa italiana. Serviranno una rogatoria internazionale e oltre nove mesi di attesa per scoprire che la polizia del Cairo aveva indagato su Regeni (“ma solo per tre giorni” sostenne nel settembre 2017 il procuratore Sadek), oltre un anno per appurare che i servizi segreti civili seguivano Regeni da almeno un mese prima della sua scomparsa. In seguito il sindacalista Mohamed Abdallah ammetterà pubblicamente di aver denunciato Regeni ai servizi segreti e di aver registrato una conversazione con il ricercatori, che avrebbe poi girato alla National Security.

Nel frattempo tra i media filo-governativi iniziano a montare le ipotesi del delitto passionale e del regolamento di conti per motivi di droga, supportate da presunte fonti investigative che parlano di “una vita piena di ambiguità” condotta dal giovane friulano, altri depistaggi che portano lontano dalla verità. Ma i magistrati della procura di Roma non si sono fermati, continuando a chiedere alla controparte egiziana piena collaborazione su tre elementi considerati cruciali per le indagini: i dati raccolti dalle celle telefoniche agganciate dai cellulari nelle zone dove sarebbe passato Regeni, i tabulati telefonici di persone egiziane sospettate e le immagini delle telecamere di sicurezza della stazione di Dokki, l’ultimo luogo noto da cui sarebbe passato Regeni. Per ottenere queste informazioni – comunque parziali, dal momento che i file registrati dalla telecamera risultavano sovrascritti e i pochi spezzoni disponibili non contenevano immagini di Regeni – sarebbero serviti anni e numerose rogatorie internazionali. 

Il 24 marzo 2016, l’apparente svolta: il ministro dell’Interno egiziano annuncia su Facebook che l’omicidio di Giulio Regeni ha finalmente dei colpevoli. Si tratta di una banda di malviventi, cinque uomini già noti alle autorità per “sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi”, nel cui covo sono stati trovati i presunti effetti personali di Regeni: il passaporto, il suo badge universitario, bancomat, portafoglio, occhiali da sole, un marsupio rosso, un cellulare, un orologio, due borselli neri e una pallina di hashish. Claudio Regeni e Paola Deffendi, i genitori di Giulio, hanno a più riprese dichiarato di non riconoscere gli oggetti (fatta eccezione per i documenti), mentre l’autopsia ha escluso che il ricercatore facesse uso di stupefacenti.

Quanto ai presunti sequestratori di Regeni, questi non potranno rispondere delle accuse, dal momento che la polizia egiziana li ha uccisi in uno scontro a fuoco. Ma la versione fa acqua da tutte le parti e non regge che pochi giorni: dall’analisi delle celle agganciate dal suo telefono, si scopre che Tarek Saad Abde El Fattah Ismail, il capo della banda, il 25 gennaio 2016 si trovava a 100 chilometri dal luogo della scomparsa di Giulio. È l’ennesima farsa

L’ultimo schiaffo all’Italia è arrivato nell’aprile del 2019, quando la procura di Roma ha inviato agli omologhi egiziani una rogatoria per individuare i domicili dei cinque agenti sospettati della morte di Regeni e iscritti nel registro dell’indagati. A oggi, quasi cinque anni dopo i fatti e a 20 mesi dalla richiesta, quella rogatoria non ha ancora ottenuto risposta e il 30 novembre scorso i procuratori egiziani hanno annunciato in un comunicato di voler chiudere le indagini, attribuendo ufficialmente l’omicidio alla fantomatica banda di criminali deceduti. 

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[Fonte Wired.it]