Seleziona una pagina
giovedì, Ott 17

Un calcio senza politica esiste solo alla PlayStation


Non solo Turchia: il saluto negato al fascismo dal partigiano Bruno Neri, Maradona che scoperchia la questione meridionale e tutto il resto. Continuiamo pure a dire che lo sport deve restare fuori da certe questioni, ma non accadrà mai

Che la politica resti fuori dal calcio”. Era l’estate del 2018, l’estate dei Mondiali ai quali l’Italia non ha partecipato. E a dire queste parole era Vladimir Petkovic, allenatore della Svizzera che stigmatizzava in maniera soft i gesti dei suoi stessi giocatori, Granit Xhaka e Xherdan Shaquiri, i quali, dopo i rispettivi gol, avevano fatto il gesto dell’aquila, a ricordare la bandiera albanese. Il tutto quando, di fronte alla nazionale elvetica della quale portavano i colori c’era nientemeno che la Serbia. Albania, Serbia, la Bosnia del naturalizzato svizzero Petkovic, la famiglia di origine kosovara di Xhaka: un melting pot che ai tempi della guerra dei balcani sarebbe stato molto pericoloso.

La questione turco-curda che si sta sviluppando in queste ore (sempre al grido di “che la politica resti fuori dallo sport, che dovrebbe unire e non dividere”, eccetera) è assai diversa, invece. Non sono passati vent’anni dagli attacchi: turchi e curdi sono ancora in piena guerra, c’è l’avanzata di Ankara che pare essere senza fine e quei gesti di vicinanza al regime di Erdogan da parte di alcuni giocatori, nella settimana che vede le nazionali di calcio impegnate nelle qualificazioni per Euro 2020, che hanno fatto scoppiare una bufera come poche; l’Uefa ha aperto addirittura un’indagine sul saluto militare dei nazionali turchi dopo il pareggio contro la Francia. L’accusa? “Comportamento politico potenzialmente provocatorio“.

Ma dalla nazionale turca nessun cedimento, anzi: nell’epoca in cui i calciatori, piuttosto che avere problemi, non si esprimono neanche sul proprio piatto preferito, il centrocampista del Milan Hakan Chalhanoglu ha affermato che “siamo al 100% con la nostra gente”; Merih Demiral, difensore della Juventus, si è esposto sui social network con messaggi che vanno oltre il sostegno del saluto militare, quello che il romanista Cengiz Under ha postato con indosso la maglia giallorossa.

Il bianconero ha usato l’hashtag #OperationPeaceSpring che raggruppa il sostegno all’attività di Erdogan, ma il contraltare è arrivato ancora da Twitter con #DemiralOut, una mobilitazione per chiedere l’allontamento del calciatore da parte della Juventus. Questioni che vanno oltre il calcio. Per citarne un’altra recente: i cori razzisti dei tifosi bulgari ai danni dei giocatori inglesi, per i quali Londra ha chiesto misure pesanti e che hanno portato alle dimissioni del presidente della Federcalcio della Bulgaria. Dalla guerra al razzismo, ai diritti negati.

La politica fuori dal calcio, certo. Come no. Al di là dell’uso improprio, ma comprensibile, del termine politica – che sarebbe l’arte di governare e invece si traduce, nei Parlamenti così come sui terreni di guerra, in polarizzazione delle fazioni – come si può lasciare fuori la vita da un mondo, quello sportivo, che vive di emozioni? Si potrebbe. Certo. Basterebbe accendere la PlayStation, giocare con il joystick con indosso il pigiama. Allora sì. Ma fin quando ci saranno le persone, che sbagliano, che prendono posizione, che hanno una storia alle proprie spalle e dei parenti in patria, la politica non potrà stare fuori da niente.

Così come “fuori” non fu in occasione della semifinale di Italia 90, Italia-Argentina, quando Diego Armando Maradona solleticava i napoletani dicendo loro che l’Italia li ignorava tutto l’anno: perché allora tifare gli azzurri in un’occasione tanto importante come una semifinale mondiale? Pure quella era politica. E lo era – in modo diverso, evitabile – anche il saluto romano di Paolo Di Canio che se lo porta addosso ancora oggi con strascichi di polemiche dei quali, forse, farebbe volentieri a meno. L’intensità di questi esempi, però, era differente. Non c’era la guerra e neanche più il fascismo quando Di Canio alzava il suo braccio destro. Questa volta è diverso.

Paolo Di Canio e il saluto fascista (foto: Getty Images)

Il dolore è vicino all’Europa, è fresco, è lì da guardare anche se per via telematica. A dire di no a Erdogan è stato Hakan Sukur, indimenticabile attaccante ex Inter, Torino e Parma direttamente su Twitter (“La mia è una lotta per la giustizia, per la democrazia, per la libertà e per la dignità umana. Non mi importa di quello che posso perdere se a vincere è l’umanità”). E anche la storia dei no sportivi famosi e coraggiosi è molto lunga: ricordiamo il calciatore Bruno Neri, che non cedette all’obbligo del saluto romano nel 1931 all’inaugurazione dello stadio di Firenze (partigiano, fu ucciso nel 1944 dai nazisti).

Non si può pretendere che si giochi soltanto a pallone, a prescindere da che parte decidiamo di stare, ognuno con le proprie motivazioni (e questo dovrebbe essere chiaro anche senza dover tirare in ballo il business, che la sua parte la fa sempre).

Ogni guerra, ogni diritto negato, ogni usurpazione va combattuta con tutte le proprie forze: quella nei confronti della guerra è una condanna sacrosanta, civile, legittima dell’Europa, dell’Uefa, della gente. C’è poi la questione di togliere o non togliere la finale di Champions alla Turchia. La Uefa ha le sue regole da applicare (e spesso ipocrite e contraddittorie, come quelle di tutte le istituzioni) e ricorre alla diplomazia. E sarebbe sacrosanto dire di no alla finale a Istanbul: non ci si spara, bensì si gioca a calcio, ma è giusto dare un segnale che solo un veicolo popolare come il calcio può diffondere.

Però diciamocelo italiani, come si può accettare la fabbricazione di armi, venderle a regimi sanguinari e poi scandalizzarsi se salta fuori il saluto militare in una partita di calcio? Suvvia.

Potrebbe interessarti anche





Source link