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lunedì, Feb 01

Un programma non si scrive in 24 ore, il Conte ter è un mercato delle poltrone



Da Wired.it :

Dal contratto con gli italiani al patto Pd-M5S del 2019, gli inutili programmi frutto delle consultazioni – una partita esclusivamente di nomi e caselle – sono il massimo segnale di distanza dai mali e dai bisogni del paese

(foto: AM POOL/Roberto Monaldo/Getty Images)

Il solito rito del programma. Lo vogliono l’etichetta istituzionale, la propaganda, la necessità – certo – di capire se ci sono i presupposti minimi. Ma parliamoci chiaramente: un “programma” o “contratto” che sciolga tutti i nodi che l’Italia ha di fronte non si scrive in 24 ore o poco più. Quella è l’ansia di portare al Quirinale un pezzo di carta con qualche punto preconfezionato pronto a essere cancellato e riscritto un minuto dopo il varo di un nuovo esecutivo. Non abbiamo scritto un Recovery Plan decente in sei mesi, dovremmo riuscirci al tavolo di Fico con Bruno Tabacci? Non scherziamo. Abbiamo spergiurato e smentito tutto e il contrario di tutto sulla legge elettorale, che fra l’altro era uno dei famosi punti posti da Nicola Zingaretti all’epoca del varo del Conte Bis, pensiamo davvero di risolverla in questo momento? E ancora, rimangono la solita palla al piede del Mes, le questioni aperte che vanno dal rifinanziamento del reddito di cittadinanza alle misure per scongiurare un cataclisma occupazionale primaverile fino ai pasticci della campagna vaccinale, lenta e disorganizzata.

Quello che conta sono le poltrone e i nomi che le occuperanno, specialmente in una trattativa che in partenza ripropone lo stesso presidente del Consiglio e la stessa maggioranza, a eccezione del drappello di “europeisti”. Di questo si sta discutendo, ed è scontato che sia così, perché gli spazi per raggiungere i propri obiettivi, e fare i propri interessi di partito, saranno proporzionali ai posti di governo e al margine di manovra che i gruppi avranno dentro l’esecutivo con le proprie teste di ponte.

Gli aspetti che più fanno gola ai partiti sono d’altronde chiari, a parte i soliti movimenti tattici: per il M5S c’è da difendere reddito e opposizione al Mes, ultima eredità di un fronte ormai spolpato delle battaglie storiche anche perché alcune sono state raggiunte; per il Pd proteggere il ministero dell’Economia, la faccia in Europa e il proprio peso nel governo, a dire il vero sproporzionato rispetto ai risultati del 2018; Italia Viva cerca invece spazi di sopravvivenza, intende collocarsi in uno spazio di liberalismo moderato garantista che gratti più dalle parti di Forza Italia che dal Pd, per cui chiede la testa del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e vuole un pezzo di potere sui famosi “cantieri”, dunque uno fra i ministeri dell’Economia, delle Infrastrutture (spacchettato dai Trasporti), del Lavoro o dello Sviluppo economico. Il resto, da Leu ai “responsabili”, non è roba che tolga il sonno.

Questo passaggio – il “tavolo” in cui per magia si improvvisa il salvifico programma matematicamente destinato a non realizzarsi, in cui si cerca quella discontinuità che poi si materializza sempre in percentuale minimale – è forse, anche se magari non sembra, il massimo segnale di distanza dai mali e dai bisogni del paese. Per poche ma evidenti ragioni. La prima, già detta, è che i punti dei leader sono chiari, non c’è alcun bisogno dell’appuntamento dal presidente della Camera. La seconda è che sono evidenti da mesi. E di tavoli aperti, e operativi, ce n’erano a decine fra palazzo Chigi e ministeri: la responsabilità è stata non metterli a frutto prima, adesso è una pantomima che tutti conoscono ma nessuno denuncia nascondendosi dietro la pomposità dell’etichetta “consultazioni”.

La terza è che l’operazione, tutta una partita di teste e deleghe, competenze e poltrone, portafogli e influenze, viene imbellettata sempre più pesantemente come un elevato simposio di grandi menti a confronto sui temi più alti che segnano la società italiana. Quando in realtà si riempiono le caselle più ambite con le persone più giuste secondo i leader. Sarebbe giusto dirlo, agli italiani: sappiate che è un grosso rimpasto con cui cercheremo di capire se ciascuno possa portare a termine le sue priorità. Altrimenti, toccherà a un governo tecnico o istituzionale che ci accompagni all’autunno.

E non è un discorso di totonomine (fra l’altro, quando la smetteremo di usare il prefisso “toto”, incomprensibile a chiunque abbia meno di trent’anni?), di capire se come sarebbe giusto Gualtieri rimarrà all’Economia, se Maria Elena Boschi possa finire alla Difesa o allo Sviluppo economico e se la testa di Bonafede cadrà, a vantaggio di magari di un tecnico d’area, che sterilizzi la balcanizzazione di quel dicastero come successo con Lamorgese per il post-Salvini all’Interno. Ciascun partito porta i suoi nomi. Per non parlare del labirinto di sottogoverno e delle deleghe, come quella ai servizi segreti, dove le biografie s’intrecciano a chissà quale altre valutazioni.

È al contrario un discorso di dignità: negare che si tratti fondamentalmente di questo quando in realtà tutto ruota intorno alle caselle di governo, perché il governo è lo specchio del peso dei gruppi che lo sostengono e che potranno muoversi con maggiore o minore libertà. Negare cioè che ogni tipo di “programma” di questo tipo è sostanzialmente fallito, dal contratto con gli italiani firmato in tv da Silvio Berlusconi ai 26 punti, poi diventati 29, del patto di governo fra Pd e M5S del settembre 2019. Un programma non si fa in 24 ore col fiato del presidente della Repubblica sul collo, e l’Italia lo sa bene.

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[Fonte Wired.it]