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mercoledì, Lug 31

Una famiglia al tappeto, il wrestling come metafora della famiglia


La storia della vera wrestler Paige è un pretesto per una commedia tenera e ben scritta sui rapporti che tengono in piedi una famiglia molto particolare. Dal 1 agosto al cinema

Vera storia trasformata in film di finzione, ambientata nel mondo di uno sport reale in cui tutto è fasullo. Una famiglia al tappeto racconta della wrestler Paige e lo fa romanzando come gli pare la sua vita (addirittura modifica il suo famoso incontro per il titolo che si trova su YouTube) per mettere sullo schermo la storia di una famiglia e della tenacia individuale. Ancora di più lo fa per prolungare il mito stesso del wrestling e non a caso è co-prodotto da WWE Studios, società di produzione sussidiaria di quella che realizza gli incontri del circuito più noto. In Una famiglia al tappeto non solo non si dice mai che il wrestling è sceneggiato ma anzi l’unico incontro della WWE che si vede (quello finale) è mostrato come un vero match dall’esito incerto, vinto a sorpresa grazie ad una prestazione imprevedibile.

In questo senso è come se questo film fosse come i preamboli narrativi che vengono mandati in onda prima dei match, il più grande e sofisticato di sempre, uno fatto con tante location diverse, colonne sonore, allenamenti, guest star (Vince Vaughn allenatore duro ed ex wrestler e ovviamente Dwayne Johnson nei panni di se stesso) nonché trame collaterali. Tutto quello che fa un film insomma, qui è usato per raccontare come Paige passi da una famiglia di wrestler che gestiva un circuito di incontri cittadini a Norwich, alle selezioni per la WWE e poi al successo. Cosa serve per reggere i ritmi atletici e cosa serve per avere la caratura del personaggio televisivo, per far colpo sul pubblico e avere una personalità riconoscibile. La costruzione di una star sportiva.

Ovviamente è un’agiografia (ma non di Paige, è un’agiografia della macchina del wrestling, superiore ai singoli lottatori, perfetta nel suo processo di selezione, equa e fatta di tante parti che creano il grande spettacolo) ed è chiaro che alla fine il wrestling è un pretesto, un elemento sullo sfondo che serve a raccontare una storia familiare. Lo vediamo all’inizio e alla fine più che altro, il resto sono assaggi e dinamiche sportive che sarebbero buone per ogni disciplina. Tuttavia la forza del film è che la sua dolcezza e la buona scrittura non fanno rimpiangere il fatto che ad un certo punto si allontani dallo sport. Il film riesce a farti desiderare anche altro (un applauso lo meritano Lena Headey e Nick Frost, genitori da caricatura perfetti) con personaggi che una volta tanto non sembrano presi dal manuale degli archetipi narrativi. Certo tutto convolerà sui binari del prevedibile ma Stephen Merchant ha la grazia di scrivere una storia che non lo fa sembrare scontato.

Soprattutto questo film riesce in una strana impresa. Il suo modello è Rocky (come per tutti i film sportivi usciti dopo il 1977), cioè è una storia in cui porsi un obiettivo sportivo è la metafora dello sforzo per raggiungere un traguardo umano. Riuscire a superare le selezioni per entrare nella WWE vuol dire migliorarsi, soffrire e superare i limiti del proprio fisico per cambiare la propria vita. Solitamente questi film traboccano di valori maschili (contrapposizione ad una nemesi, tenacia, durezza, decisioni irrevocabili), invece qui è tutto ribaltato per assecondare dinamiche femminili, su tutte l’idea che i conflitti vanno risolti non distruggendosi ma venendosi incontro. Ci sono le invidie con le altre wrestler, il sentirsi diversa, essere emarginata e poi però capire le ragioni altrui là dove in un film sportivo maschile ci sarebbe stata una rissa (immaginate Daniel LaRusso che a metà di Karate Kid capisce le ragioni di Johnny Lawrence e diventa suo amico). Riuscire a fare tutto questo senza ammazzare il film non era facile.

Certo tutto questo arriva non senza diverse forzature (le ragazze stanno insieme accettando di non essere in competizione anche se effettivamente sono in competizione), non senza una certa dose di buonismo da lacrima facile e non senza l’esaltazione di tutti i personaggi (più di tutti ovviamente ne esce bene The Rock, idolo totale di tutti, buonissimo, magnanimo e “sai, anch’io ero come te anni fa”). Ad oggi Paige non può più gareggiare per via dei troppi infortuni anche se ha solo 27 anni, e questo nel film manca, come manca tutta la parte in cui vengono concordate le trame, i wrestler ricevono i copioni e vengono studiate le mosse (che è un peccato perché sono le stesse dinamiche attraverso le quali si fanno i film e sarebbe stato bello vederlo). Una famiglia al tappeto, come detto, è una storia vera raccontata come fosse finta, nel mondo di un sport in cui vero in cui tutto è falso tranne i colpi dati e presi. E come tale non è male.

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