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mercoledì, Ago 05

Una lettera d’amore a Beirut, perchè si risollevi anche questa volta



Da Wired.it :

Non è la prima volta che la città cade in ginocchio. Tra bombardamenti, crisi economiche e attentati il suo tessuto urbano è un alternarsi di palazzi scintillanti ad altri martoriati dalla violenza. Che cosa le dà la forza di rimettersi in piedi?

La violenza dell’esplosione, i vetri in frantumi, le macerie, i rivoli di sangue sull’asfalto, le persone in coda negli ospedali, la conta dei morti. Ogni tanto a Beirut si ripete questo scenario. La capitale del Libano è caduta tante volte nella sua storia recente, che fosse per la guerra civile negli anni Settanta, o per il conflitto con Israele nel 2006, o, ancora, per la lunga serie di attentati che l’hanno messa in ginocchio nell’ultimo decennio. Eppure ogni volta ha saputo rialzarsi in piedi, leccandosi le ferite ma senza mai nasconderle a chi le facesse visita, come fossero tatuaggi indelebili.

Ho vissuto per un po’ di tempo non lontano dal luogo in cui ieri è avvenuta una delle deflagrazioni più violente mai viste. Mi capitava spesso di passeggiare sul lungomare, uno di quei posti da sogno dove tira sempre un vento caldo, a novembre si gira in maniche corte e orde di ragazzini si tuffano mentre la gente inizia a riflettere su quali regali fare a natale. Uno dei luoghi che più colpivano la mia attenzione era il palazzo butterato che si stagliava al fianco degli edifici avanguardisti à la Dubai del nuovo porto. Mentre le gru tiravano su uno skyline luccicante che rifletteva il blu del mare libanese, quel palazzo bucato dai colpi di mortaio e dai proiettili della guerra civile non è mai stato toccato. In fin dei conti, è un museo a cielo aperto, racconta una delle tante storie di Beirut e dal momento che la storia non si cancella, quel palazzo è rimasto lì, anche se esteticamente in contrasto con il lusso che si è sviluppato intorno.

Camminando per la città ci si imbatte in tante altre situazioni simili, case e palazzi segnati dalle numerose guerre vissute in epoche più o meno recenti, lasciate così, non ristrutturate per una scelta voluta e consapevole. Di fianco, in contrasto, splendidi giardini verdi, piccoli gioielli architettonici, perle di design, locali che pullulano di giovani. Beirut è sempre stata consapevole della sua vulnerabilità, ma la velocità e la forza con cui ogni volta è rinata fa pensare che se c’è un posto dove quella parola abusata come “resilienza” può avere un senso, quello è proprio nella capitale del Libano. Le persone hanno fatto il callo alla sofferenza e ogni volta si sono rimboccate le maniche in un rifiuto collettivo alla morte della città, e quindi di loro stesse. Quindici anni di guerra civile tra il 1975 e il 1990 non possono essere dimenticati, ma sono stati superati brillantemente e nel corso degli anni Novanta la città è tornata a essere quel polo culturale, commerciale e medico che era prima del conflitto. I bombardamenti di Israele nel 2006 hanno distrutto interi quartieri, ma anche lì la ferita si è rimarginata in fretta e furia. Così come le continue autobombe in città nell’ultimo decennio non hanno scalfito l’energia di una città che ha continuato a pedalare.

Le esplosioni di ieri nella zona del porto avvengono però in un momento molto delicato per la città e per il paese. Il Libano sta attraversando la crisi economica più pesante della sua storia, il debito pubblico continua a crescere e i salari a scendere, mentre ogni mese migliaia di persone scendono sotto la soglia di povertà e fanno fatica ad avere accesso a un cibo che scarseggia e i cui prezzi dunque salgono. La distruzione del porto bloccherà l’arrivo di nuove merci, mentre un enorme deposito di grano è andato distrutto. Sferzata dal Covid-19, la capitale aveva poi già dovuto chiudere diversi reparti di ospedale perché non c’erano risorse per garantire l’elettricità. Il Libano, insomma, da qualche mese era in ginocchio, l’ennesima caduta verso il baratro. Questa volta non le è stato nemmeno dato il tempo di risollevarsi, che una nuova tragedia l’ha investita. Ecco perché quella che si prospetta ora, tra tutte, è forse la prova più difficile per la città.

Beirut ha rischiato molte volte di morire ma si è sempre rifiutata di farlo. La tanto decantata resilienza del popolo libanese non deve però trasformarsi nella ricetta per rialzarsi in piedi ogni volta, perché c’è una soluzione più semplice, quella appunto di non cadere. E qui entra in gioco una classe politica vecchia e corrotta, totalmente sconnessa dai suoi cittadini e concentrata esclusivamente sui suoi interessi egoistici. Molte delle crisi del paese, su tutte l’emergenza socio-economica degli ultimi tempi, vengono da qui. Sulla tragedia di ieri non si sanno ancora le cause precise, l’unica certezza è che avrà una portata ancora più violenta proprio per lo scenario di crisi in cui si inserisce, causata da giochini di palazzo.

Come ha scritto la scrittrice libanese Lina Mounzer sul New York Times, i libanesi vengono descritti come quelli che continuano a ballare mentre piovono proiettili, o che trasformano bunker di guerra in discoteche. Un modo per raccontare l’orgoglio di queste persone davanti alle difficoltà, ma anche una forma di consolazione con cui emanciparsi psicologicamente da un perenne stato di crisi. All’ennesima tragedia, è però arrivato il momento di togliere dalla spalle dei libanesi il peso della nazione, perché di resilienza si sopravvive ma non si può vivere per sempre. Se si vuole che Beirut, intesa come quella città dinamica, vivace, attraente, in definitiva unica, che è impressa nel cuore di chi come me ha avuto la fortuna di conoscerla e trascorrerci del tempo, ecco se si vuole che essa non scompaia sotto i colpi dell’ennesimo dramma, è necessario che lo stato torni a fare la sua parte.

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[Fonte Wired.it]