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venerdì, Nov 27

Uncle Frank, l’America delle diversità e delle minoranze vista con gli occhi di una ragazzina



Da Wired.it :

Disponibile su Amazon Prime Video, vent’anni dopo Americam Beauty, il film che gli valse cinque oscar, il regista torna a parlare di tabù e repressioni ma con meno asprezza

Alan Ball è la persona che ha demolito l’immagine della famiglia americana a fine anni ‘90 ed è quello che ora cerca di rimetterne insieme i pezzi. Era il 1999 quando scrisse American Beauty, un film che arrivava a fine era Clinton, dopo un decennio di relativo benessere, in anni privi di grandi conflitti armati, prima che il terrorismo diventasse la nuova ossessione collettiva, e si occupava di un rimosso, del mondo che si cela dietro la patina di presentabilità. Una pletora di Oscar (5) anche esagerati lo consacrarono come il film dell’anno. Sono passati venti anni e ora Alan Ball, che nel frattempo si è tenuto occupato creando True Blood e Six Feet Under, scrive e dirige Uncle Frank.

C’è il medesimo intento di svelamento di quel che macera sotto i tappeti delle famiglie americane di American Beauty ma tutto un altro piglio. Di nuovo è la storia di una ragazza, l’ultima nata della famiglia, che lentamente scopre le vere dinamiche che regnano nel nucleo in cui è cresciuta. Beth (interpretata da Sophia Lillis, già tra i protagonisti di IT) forse non somiglia ai fratelli e ai genitori, forse si sente più vicina allo zio Frank (Paul Bettany, sempre a un passo dal fare qualcosa di buono), sempre un po’ ai margini, sempre un po’ maltrattato dalla famiglia, comunque diverso, interessato a tutto. Vive in città, a New York e questo spiega molto, ma non ancora quello che lei scoprirà, una volta iniziata l’università nella grande città, andandolo a trovare. È il 1973 e suo zio è omosessuale, una piccola rivoluzione per il mondo di una ragazza di campagna che non ha mai visto un gay in vita sua. Ma ancora non siamo al punto del film.

Lo scopo di Uncle Frank è diametralmente opposto a quello di American Beauty, nonostante anche qui ci sia una sessualità svelata. Non vuole scioccare e scuotere, ma commuovere e accarezzare. Quello era un film pieno di pioggia, questo assolatissimo. Negli ultimi 20 anni è cambiato tutto in termini di rappresentazione degli omosessuali e soprattutto di considerazione dell’omosessualità nella società americana. Nel raccontare di un periodo in cui invece non era così il film è molto meno duro di quanto non lo fosse American Beauty, la scoperta di una sessualità repressa in gioventù e sfogata lontana dalla famiglia è in questo film una passeggiata commovente nel nostro passato collettivo per non ripetere gli stessi errori.

Ben presto infatti Uncle Frank diventa altro. Perché scoperta l’omosessualità ci sarà un lutto in famiglia che costringerà Frank e Beth a tornare indietro, a tornare in campagna, e stavolta il fidanzato di Frank li segue. Tenere nascosta l’omosessualità sarà molto complicato. Le trappole che potrebbero far sfociare il film in commedia sono ovunque a questo punto e Alan Ball è bravo a dosare moltissimo la leggerezza e non dimenticare di essere in missione per fare un film sulle famiglie e sul cuore americano, non sul marcio.

Certo la mano di Ball alla regia non ha proprio la leggerezza e la sicurezza che ha in sceneggiatura, non ha la personalità e tantomeno la capacità di lavorare su ciò che si vede preferendogli sempre ciò che si sente, i dialoghi, e la recitazione. Questo film di attori in cui ognuno ha un piccolo assolo, blandamente riservato per scene di pianto o per le sempre buone confessioni (la maniera in cui il cinema americano gioca in difesa e conta sempre di prendere un po’ di facili applausi), sembra realizzato per mettere in evidenza le capacità dei suoi attori e solo poi per creare un ritratto familiare. Tuttavia nel finale Uncle Frank riserva più di una sorpresa per come scarta dal prevedibile e dimostra una fiducia non scontata nei nuclei tradizionali.

L’impressione però è sempre che il cinema guardi al passato e racconti storie di difficoltà omosessuale (come fa anche con storie di difficoltà razziale o anche di donne in difficoltà nell’affermare se stesse) per sfruttare contesti in cui i contrasti e le angherie erano di certo superiori, più evidenti e più esplicite. Invece che mostrare la situazione attuale, invece che cercare il confronto con un presente sempre difficile da intercettare e in mutamento, è più semplice mettere in scena un passato sul quale le valutazioni morali sono già chiare e condivise. Saremo tutti d’accordo che maltrattare e marginalizzare gli omosessuali come si faceva negli anni ‘70 è sbagliato, saremo tutti d’accordo che l’idea di paternità mostrata da questo film è da condannare. E se in un film del genere, che si muove in un territorio su cui è così facile dare un giudizio, non si osa almeno un po’, beh allora è possibile davvero dire che è stato fatto il lavoro minimo.

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[Fonte Wired.it]