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giovedì, Apr 29

V-LAP, il primo microcomputer per il monitoraggio cardiaco


Nicolò di Bartolo è uno dei 24 pazienti al mondo, e quinto in ad aver preso parte alla sperimentazione clinica di V-LAP, il primo microcomputer wireless per il monitoraggio cardiaco, sviluppato dalla società high tech israeliana Vectorious Medical Technologies. In dopo il primo intervento condotto dal prof. Carlo Di Mario dell’Università degli Studi di Firenze, a portare avanti le sperimentazioni è l’equipe del prof. Filippo Crea, direttore del Polo di Scienze cardiovascolari e toraciche del Policlinico Gemelli di Roma. Prima dell’intervento stavo male accusavo malesseri, soprattutto nell’ultimo periodo, alcuni dei quali piuttosto gravi. Adesso è da quasi un anno che sto bene”, ci racconta sorridendo.

V-LAP, il dispositivo di monitoraggio cardiaco

Lo scompenso cardiaco consiste nell’incapacità del cuore di pompare quantità di sangue sufficienti per far fronte alle necessità dell’organismo. V-LAP è un dispositivo progettato proprio per migliorare la vita di quanti ne sono affetti. “Vuol dire che il cuore non riesce a star dietro alle domande che l’organismo fa. E questo impatta molto sulla qualità della vita dei nostri pazienti”, spiega il dott. Domenico D’Amario, del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Toraciche di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma, nonché membro dell’equipe del prof. Crea.

Come funziona V-LAP?

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Il dispositivo viene inserito in sedazione profonda nel setto interatriale nel corso di un intervento mininvasivo e a basso rischio che richiede al massimo un’ora. Il sensore non è alimentato da batterie, si carica in remoto dall’esterno e può funzionare per l’intera vita del paziente. “Si tratta di un piccolo sistema – prosegue D’Amario – che ci consente di monitorare la pressione all’interno del cuore, nello specifico la pressione dell’atrio sinistro, che sappiamo essere un valore molto accurato e che previene di molte settimane l’insorgenza di tutti quei sintomi che i nostri pazienti ci riferiscono”. Il device è indirizzato a coloro che sono affetti dagli stadi più avanzati di insufficienza, già tutti portatori di defibrillatori e sotto il trattamento massimale. Una volta impiantato, il V-LAP permette di raccogliere 24 ore al giorno dati accurati sull’attività cardiaca del paziente, che viene monitorato anche con visite periodiche. Ricevute le informazioni in cloud, il medico di base o l’equipe ospedaliera possono analizzarne i tracciati. In questo modo è possibile modificare in tempo reale le terapie a seconda del bisogno e delle esigenze. Come è accaduto, ad esempio, al dott. Di Bartolo, a distanza di sei mesi dall’intervento: “Dai grafici delle trasmissioni emergevano valori incoraggianti nei primi tre mesi, mentre negli ultimi 30 giorni, la pressione aveva cominciato ad alzarsi. È stato allora che il prof. Crea ha modificato la mia terapia. A distanza di 15-20 giorni, il tempo necessario per ottimizzare il dosaggio del nuovo farmaco, sono tornato a stare bene”.

La cura migliore, a distanza

Attualmente la diagnosi viene fatta sulla base dei risultati di esami come l’ecocardiogramma, la radiografia del torace o il test da sforzo. In alcuni casi è necessario impiantare un pacemaker mediante un intervento chirurgico. Non sempre i sintomi sono evidenti nella fase iniziale della patologia. Talvolta si manifestano in fase avanzata e molto spesso alcuni di essi, come l’aumento di peso o la cosiddetta “fame d’aria”, vengono confusi come segni normali dell’avanzamento d’età. V-LAP permette ai medici di avere un quadro più ampio e dettagliato e dunque di agire sul tempo. “Proprio grazie all’interazione fra i sintomi che il paziente ci riferisce e i dati che otteniamo da questi device, siamo in grado di fornire anche a distanza la cura migliore, più aggiornata e personalizzata anche per i pazienti più gravi”, spiega D’Amario.

Più controllo e meno ospedalizzazioni

Il dispositivo consente, inoltre, di ridurre notevolmente il numero di ospedalizzazioni. Un punto di forza, soprattutto se si considerano tutti i cambiamenti nell’assistenza sanitaria che la pandemia da Covid-19 ha imposto. Fino a poco tempo, infatti, era obbligatorio curare i pazienti con insufficienza cardiaca agli stadi più avanzati in day hospital. “Abbiamo scelto i pazienti più a rischio di eventi gravi o di ospedalizzazioni – spiega il dott. D’Amario – e la scommessa è quella di averli più a stretto contatto con noi attraverso questo tipo di dispositivi e di curarli al meglio nonostante la distanza”. Oggi tecnologie di questa portata possono aiutare i medici a personalizzare il più possibile i vari trattamenti, tenendo i pazienti al di fuori dell’ospedale, senza per questo farli sentire soli, ma anzi garantendo loro la presenza costante di un esperto in grado di monitorare sintomi e valori.



fonte : skytg24