Che cos’è l’estremo per lei?
Io amo sfidare i miei limiti, intellettuali o di conoscenza. Tendo a voler capire sempre di più, a spostare un pochino più in alto l’asticella. Mio papà è scienziato, mi ha infuso l’amore per la scienza, la fiducia nelle capacità dell’uomo di riuscire a trovare soluzioni anche a ciò che sembra impossibile. L’estremo è un confine variabile, che cambia nel tempo. Più si va avanti, più i confini si allargano: perché più cose impariamo, più conosciamo, più la tecnologia evolve. E cambia anche il nostro modo di affrontare ciò che prima sembrava irraggiungibile. E che alla fine, diventa possibile.
Quali sono le sue figure ispiratrici, oltre a suo padre?
Al Mit ho avuto la fortuna di conoscere Dava Newman: una leader, una visionaria, una donna piena di idee. Ha guidato il Media Lab, ha lavorato alla Nasa. Poi Carlo Ratti, una figura poliedrica, ingegnere e architetto, capace di ispirare chi lavora con lui e generare visioni trasformative. Abbiamo lavorato insieme in una collaborative classroom tra Politecnico di Milano e Mit. Infine gli astronauti. Uno su tutti: Jeffrey Hoffman, 75 anni, cinque missioni nello Spazio, oggi professore al Mit. Una volta mi ha detto: ‘Se fai una scelta, portala fino in fondo’. Mi ricordo spesso di questo consiglio.
Lei avrebbe voluto diventare astronauta?
Sì. Ho anche fatto domanda nell’ultima call dell’Esa. Eravamo in ventiduemila. Non sono passata. Ma è stata un’esperienza che mi ha fatto capire quanto creda davvero in quello che progetto.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Mi piacerebbe costruire un prototipo del modulo Argonaut Habitat Unit che abbiamo presentato alla Biennale Architettura 2025. Poterlo testare anche sulla Terra, in un ambiente analogo. E poter integrare sempre di più gli esseri umani alle macchine e ai robot: sviluppare soluzioni robotiche indossabili, tute intelligenti, tecnologie che interagiscono con l’habitat. Sto anche lavorando a una conferenza internazionale con Esa, lo Space Chi 2025. Vogliamo creare un vero filone di ricerca.
Che cosa ha imparato lungo la strada che possiamo imparare anche tutti noi?
Gli astronauti che tornano sulla terra si commuovono davanti a un fiore, al suono degli uccelli, davanti all’acqua che scorre. Nello spazio manca tutto questo. Da loro ho imparato l’amore per le piccole cose. Quanto sia prezioso il nostro ecosistema e quanto dobbiamo proteggerlo. Non c’è un pianeta B. Possiamo andare sulla Luna, su Marte, ma siamo stati progettati per vivere sulla Terra. E dovremmo riappropriarci di questo sentimento di appartenenza del nostro Pianeta Terra, che diamo troppo spesso per scontato e che invece non è scontato. E la vera esplorazione ci riporta a casa, con più consapevolezza.