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lunedì, Dic 27

Videogiochi e arte contemporanea. Flânerie ludiche in mondi distopici



Da Wired.it :

Un gruppo di sopravvissuti si addentra nella New York post-apocalittica in uno dei videogiochi della serie Tom Clancy’s: The Division (Ubisoft, 2016) attraverso una fitta coltre di neve. Gli zaini sono carichi di armi e munizioni. L’abbigliamento è quello tipico da assetto di guerra e ognuno porta in spalla un fucile da cecchino. Il gruppo marcia unito per le strade di Stuyvesant Town, Manhattan, cercando di passare inosservati compiendo movimenti rapidi e guardinghi per sfuggire all’occhio nemico ma, contrariamente a quanto suggerisce l’aspetto, i quattro avatar non hanno alcuna intenzione di assumere un atteggiamento ostile. Tantomeno di aprire il fuoco.

«Dunque, durante il tour passeremo da Stuyvesant Town, un luogo adatto per parlare di due importanti figure», esclama uno dei quattro. «Il primo è Le Corbusier, architetto rivoluzionario che pensava la città come una macchina vivente […]. Il suo ideale era la Ville Radieuse, composta da grattacieli asimmetrici attorno a cui si sarebbero snodati complessi residenziali, parchi e grandi autostrade per snellire i trasporti. L’altra personalità che vogliamo menzionare è l’urbanista Robert Moses, che ha influito profondamente sullo sviluppo di New York. Questo distretto veniva chiamato guest houses e, pianificandone la ricostruzione, Moses aveva cercato di attuare alcuni dei principi di Le Corbusier […]». Dopo questa breve sosta, il gruppo si rimette in marcia tentando di sfuggire agli scontri armati che si susseguono durante il cammino e, dopo qualche minuto, riprende il tour architettonico attraverso i quartieri devastati di New York, evitando a tutti i costi l’uso delle armi.

Quello che può sembrare un let’s play sui generis è in realtà una performance realizzata da alcuni membri del collettivo austriaco Total Refusal, Robin Klengel, Leonhard Müllner, Adrian Haim e Susanna Flock, in occasione della nona edizione del Patchlab Digital Art Festival di Vienna del 2020. L’intervento, dal titolo Operation Jane Walk (2019), è un atto di appropriazione artistica dell’ambiente di gioco di Tom Clancy’s: The Division che, da teatro di guerra, si trasforma in spazio performativo. Le strategie di assalto, i combattimenti all’ultima pallottola, la raccolta di armi, scorte e punti esperienza, vengono messe da parte per intraprendere un tour pacifista dello spazio urbano. Vestendo i panni di flâneur digitali all’interno di videogiochi sparatutto multiplayer, il collettivo rifiuta di sottostare agli obiettivi di gioco per dedicarsi a discussioni inerenti alla storia dell’architettura e dell’urbanistica newyorkese, alla cultura e alla politica contemporanea e ai loro effetti sulla pianificazione urbana.

Interventi come Operation Jane Walk si inseriscono all’interno di un folto gruppo di progetti situati all’intersezione tra cultura videoludica e arte contemporanea in cui lo spazio di gioco viene sottoposto ad un processo di ri-funzionalizzazione che, di fronte alla fretta dell’agire, predilige la calma dell’osservazione, della contemplazione e addirittura della stasi. Durante queste flânerie videoludiche il gameplay e le meccaniche di gioco diventano i mezzi attraverso i quali gli artisti che lavorano con il mezzo videoludico intraprendono atti di ribellione simbolici per riscrivere le regole di gioco, fare tabula rasa degli obiettivi, ed utilizzare il videogioco come strumento di commento politico, sociale e culturale. Nei reportage fotografici di Alan Butler, le strade di Los Santos cessano di essere teatro di sparatorie mortali e spericolate corse di macchine alla Fast and Furious per focalizzare l’attenzione sulla popolazione dei senzatetto e il degrado ambientale in cui verte la controparte virtuale della città degli angeli. I body builder di Muscle Sands Gym, nella soleggiata Vespucci Beach di GTA V (Rockstar, 2013), solitamente sono impegnati a mantenere il fisico statuario tra trazioni e bench press ma nelle mani dell’artista svedese Jonne Hannson, gli NPC si trasformano in peripatetici digitali che, tra una ripetizione e l’altra, contemplano l’incessante routine a cui sono sottoposti, la cultura della gamification e la cosiddetta wellness syndrome da cui sembra impossibile sfuggire. Entrambi gli artisti abbandonano le missioni proposte dal gioco per concentrarsi su ciò che di solito è progettato per essere ignorato, andando contro ciò che di consueto il gameplay richiede loro come giocatori. «Gioco come chiunque altro ma laddove la maggior parte dei giocatori segue le regole, come cercare di uccidere i nemici o accumulare punti, io scruto l’orizzonte e le sue nuvole, cercando di trovare il luogo più adatto dove il sole enfatizza la silhouette delle montagne o dove la cenere e il fumo di un villaggio in fiamme farà risaltare i toni rossicci della vegetazione». Il fotografo americano Justin Berry commenta così il suo approccio all’ambiente videoludico nella serie fotografica Video Game Landscapes (2012-2015). Call of Duty (Activision Blizzard, 2003-2017), Medal of Honor (EA, 1999-2012), Skyrim (Bethesda, 2011), sono solo alcuni dei titoli utilizzati dall’artista per trasformare ogni scatto in una interruzione del normale flusso del gioco per trovare momenti di quiete, prendendo le distanze dalle situazioni di conflitto. L’introduzione di modalità sempre più sofisticate di osservazione del paesaggio, come la photo mode, ha incoraggiato artisti e giocatori a prendere materialmente possesso dell’ambiente attraverso una navigazione pressoché senza limiti della scena, permettendo di immortalare personaggi in momenti memorabili oppure scandagliare l’orizzonte in cerca di paesaggi mozzafiato. In fase di lockdown, il fotografo italo svizzero Pascal Greco ha utilizzato il paesaggio lunare di Death Stranding (Kojima Production, 2019) come terreno di indagine fotografica per ampliare il progetto No Cliché (2020) dopo che il suo viaggio in Islanda era stato annullato a causa della pandemia. In Place(s), titolo dell’operazione, Greco elimina dalla scena ogni segno di distruzione del cataclisma che ha colpito la Terra, gli sforzi erculei e le fatiche di Sam Bridges, per soffermarsi sull’aura mistica che il paesaggio di Kojima condivide con l’Islanda, rendendo quasi impossibile distinguere il paesaggio digitale da quello analogico.

In ognuno di questi interventi lo spazio videoludico cambia volto, diventando un ambiente dedicato alla sperimentazione visiva in cui rimodulare paesaggi, città, regole, meccaniche, consuetudini di gioco. Si innesca un processo di ri-codificazione che trasforma l’azione frenetica in quiete, il momento della battaglia in riflessione, la mappa e i suoi punti di interesse in un territorio da esplorare ed osservare in ogni sua minuzia. Ciò che di solito è destinato a fare da cornice e a non essere veramente visto, al di là dell’effetto wow per la strabiliante verosimiglianza con il mondo reale, diventa elemento centrale della narrazione, la quale non procede più seguendo le logiche dell’azione quanto piuttosto quelle dello sguardo.



[Fonte Wired.it]