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martedì, Feb 16

Viola Di Grado e tutta la verità sul mondo delle traduzioni



Da Wired.it :

Scrittrice tradotta in vari paesi del mondo, è a sua volta traduttrice con una precisa visione della realtà che la circonda: “In Italia c’è un bug culturale per cui si commette l’errore goffo di non citare il traduttore. Eppure, leggere un libro tradotto significa leggere un libro che è stato riscritto, anche se entro il perimetro del pensiero originario”

(Foto: Andrej Russkovskij)

Tradurre un testo letterario non deve essere considerato come il semplice atto di trasporre parole da una lingua straniera nella propria lingua d’origine. Se si pensa questo, si commette un errore. La traduzione è, in realtà, un processo di immedesimazione totale che il traduttore deve avere non solo con il libro che ha tra le mani e che gli terrà compagnia per parecchi mesi, ma anche con l’autore o l’autrice e la sua cultura di appartenenza. Non si sa molto della figura del traduttore. Spesso attorno a questo nobile mestiere di artigianato aleggia un alone di mistero. Pochi i nomi citati che risuonano familiari all’orecchio attento di un lettore; gli altri per lo più restano anonimi. Per non parlare delle voci che circolano in questo campo e che vedrebbero i traduttori figure di serie B, spesso sfruttate e mal pagate.

Per questo è importante fare chiarezza. Viola Di Grado, oltre a essere una scrittrice tradotta in vari paesi del mondo, è una traduttrice con una precisa visione della realtà che la circonda. Sue le ultime due traduzioni del saggio-memoir Non morire di Anne Boyer (La Nave di Teseo), scrittrice statunitense che, partendo dalla lotta contro il cancro al seno, ha analizzato il sistema economico dietro le cure oncologiche e le esperienze simili di scrittrici del passato e che, nel 2020, le ha fatto ottenere il Premio Pulitzer per la saggistica, e della raccolta di saggi Nuovo cielo, nuova terra di Joyce Carol Oates (Il Saggiatore), all’interno della quale Oates ha preso in esame un ristretto gruppo di scrittori del Novecento, tutti anglosassoni tranne Kafka, e ne ha analizzato i differenti modi in cui hanno cercato di raccontare, oltre alle storie caratterizzate da eventi, luoghi e personaggi, tutto ciò che poteva esserci al di là del mondo reale e materiale. Due libri straordinari, quindi, che hanno permesso a Viola Di Grado di giocare con la lingua inglese e di conoscere a fondo due autrici immense per talento e determinazione.

(Foto: Andrej Russkovskij)

Sei una scrittrice tradotta in tutto il mondo, un’orientalista e una traduttrice italiana affermata. In quale ruolo ti senti più a tuo agio?

“Sono una scrittrice prima di essere qualunque altra cosa, anche prima di essere una donna, un mammifero, un essere umano. Mi sento cioè più definita dal mio rapporto con la scrittura che dalle mie caratteristiche organiche che mi legano alla specie. Dopo viene tutto il resto, compresa la mia attività di traduttrice, che amo molto: mi permette di scrivere senza scrivere, ovvero di scrivere entro i confini segnati dall’immaginazione di un altro. Sono anche un’orientalista, una studiosa dell’Asia orientale, che è una delle mie passioni più forti e che ha segnato la mia crescita anche come scrittrice. Ultimamente ho aggiunto una nuova identità: scriboterapeuta. È una parola che ho inventato per un tipo di writing coaching di cui ho iniziato a occuparmi: sessioni individuali con aspiranti scrittori che desiderano lavorare sui propri romanzi o apprendere tecniche per aggirare ostacoli psichici che spesso impediscono un sano rapporto con la scrittura”.

Di origine siciliana, catanese, laureata in Lingue Orientali all’Università degli Studi di Torino e specializzata in Filosofie dell’Asia Orientale alla University of London. Che cosa ti ha portato a compiere questa scelta?

“Fino a cinque giorni prima della chiusura delle iscrizioni non mi ero interessata minimamente all’università da frequentare. Ero impegnata nella stesura di un romanzo (che poi avrei cestinato), e di tutto il resto non mi importava nulla. Poi mi sono posta il problema: che cosa mi sarebbe piaciuto studiare? Siccome mi sento fatta di linguaggio più che di materia organica, ho scelto lingue. Volevo studiare le due lingue più difficili del mondo e più lontane dalla mia, così ho optato per il cinese e per il giapponese. Viviamo dentro la nostra lingua, e studiare lingue molto lontane dalla propria permette di creare uno spazio neutro in cui una lingua pura, meno corrotta dalle approssimazioni culturali specifiche, possa germogliare: questo era il mio scopo, la mia missione di scrittrice. Poi, per puro caso, ho scoperto di amare molto la Cina e il Giappone”.

In un’intervista hai detto: “Non è mia Catania, io non ho patrie”Allora, nonostante il tuo continuo viaggiare, vivi in un non-luogo?

“Sì. Il mio luogo preferito è l’aereo, perché in aereo si è da nessuna parte, in un non-luogo fatto solo di cielo e di potenzialità, di transizione. Se dovessi dire dove ho le radici, direi: in cielo”.

Parliamo di te come traduttrice. In generale, quali caratteristiche dovrebbe avere un buon traduttore?

“Un buon traduttore è in grado di creare, nel trasloco da una lingua all’altra, una casa semantica nuova che, nella disposizione degli oggetti, sia perfettamente analoga all’ambiente linguistico originale. È un’operazione complessa, in cui è facile sbagliare e far uscire la lingua d’arrivo dal tracciato originario. Richiede una perfetta combinazione tra l’invisibilità del traduttore e la visibilità/presenza dei suoi strumenti di conversione e re-invenzione. È un lavoro di grande creatività e, contemporaneamente, di matematico controllo. Laddove, nella pagina, è possibile vedere l’ombra del traduttore, è stato commesso un crimine di traduzione”.

Questa professione richiede specifiche competenze linguistiche, ma necessita anche di una giusta dose di creatività, appunto, per riuscire a cogliere pienamente la voce di un autore che scrive in una lingua diversa dalla propria. Qual è il tuo metodo? Ovviamente, se ne hai uno.

“È un tipo di creazione che richiede intanto una sintonizzazione precisa con la voce originaria e poi la creazione di un artificio, di una lingua specifica che restituisca esattamente non solo lo stesso registro, con tutte le variazioni del caso, ma la stessa musica e lo stesso peso esistenziale, la stessa atmosfera, l’intera gamma di sfumature semantiche ed emotive. Quando dico peso esistenziale, intendo anche il peso vero e proprio che una parola porta per la combinazione precisa del suo suono e del suo significato, del suo ruolo nel parlato e di quello specifico nel testo. Il mio metodo lo descriverei come una mimesi mistica: diventare lo scrittore, i suoi pensieri, ma con l’ingegno e la pazienza di ricrearli in lingua italiana.”

Jhumpa Lahiri, scrittrice, Premio Pulitzer per la narrativa e traduttrice inglese dei romanzi di Domenico Starnone, in un’intervista rilasciata nel 2018 a Cressida Leyshon del New Yorker affermava: La traduzione va oltre la lettura… è un atto viscerale…”Anche per te è così?

“Sì, decisamente. Sento sempre un legame profondissimo con gli scrittori che traduco. Durante la traduzione vivo imbrigliata nel loro universo semantico. Come ho detto ad Anne Boyer dopo aver tradotto il suo libro: sono stata per mesi un’inquilina della tua testa. Sempre a proposito di rapporto viscerale, un’autrice che amo molto da sempre è Janet Frame, la più importante scrittrice neozelandese. Un paio di anni fa ho tenuto una lezione all’università dove insegnava, e lì è iniziato un progetto importante: vorrei tradurre una sua splendida raccolta di racconti, inedita in Italia. Ho il supporto dell’esecutrice testamentaria letteraria di Janet Frame e l’interesse del Creative New Zealand Translation Grants, e cercherò al più presto l’editore adatto”.

Parliamo dei tre libri che hai tradotto in questi anni: Da grande di Jami Attemberg, Giuntina, 2018; Non morire di Anne Boyer, La Nave di Teseo, 2020; Nuovo cielo, nuova terra di Joyce Carol Oates, Il Saggiatore, 2020. Tre donne. È un caso o è una precisa scelta femminista?

“È un caso. Un caso speciale: sono felice di aver tradotto tre scrittrici che ammiro molto. Che siano donne è importante, ovviamente. Ricordiamoci che il primo romanzo del mondo, La storia di Genji, lo ha scritto una donna: Murasaki Shikibu, in Giappone, nell’anno mille. E, a proposito di traduzioni, in Italia abbiamo un’ottima traduzione del libro a cura di Maria Teresa Orsi”.

Che cos’hanno di speciale questi libri e perché i lettori dovrebbero appassionarsi a loro?

“Non morire è il nuovo Malattia come metafora, è un testo straordinario, politico e poetico, femminista e sovversivo. Parla di che cosa significa avere il cancro nell’era del digitale, parla del corpo che si ammala: strumentalizzato dal capitalismo oncologico e dalla banalità dei media, privato degli assetti di base della propria identità, scansionato e numerato e spezzettato ma anche mitologizzato. Nuovo cielo nuova terra è un saggio di Joyce Carol Oates sull’esperienza visionaria in letteratura: parla di Woolf e di Beckett, di Plath e di Kafka. Un libro intelligente e anticonformista di una delle scrittrici più importanti del panorama mondiale. Da grande è una commedia punk, frizzante e insolente, su che cosa significa essere single in un mondo tarato sulla coppia, su come si può imparare a essere liberi senza doversi sentire soli, e sarà presto una serie tv prodotta da David Heyman. Lo ha scritto Jami Attenberg, che è anche una cara amica, ci siamo conosciute sette anni fa in un festival in Canada. Se il coronavirus me lo consentirà, andrò a trovarla a New Orleans in autunno per il suo cinquantesimo compleanno”.

Perché il traduttore, quando si parla di un libro che lui stesso ha tradotto, non viene quasi mai citato? Eppure, la fatica e il tempo impiegati sono notevoli.

“È una sorta di bug culturale, un errore goffo commesso spesso in Italia (fortunatamente sempre meno) da chi non ha chiaro il ruolo del traduttore, e dunque nemmeno dello scrittore: leggere un libro tradotto significa leggere un libro che è stato riscritto dal traduttore, anche se entro il perimetro del pensiero originario. Dunque, andrebbe sempre citato e preso in considerazione, se non altro per evitare di parlare di un libro credendo di parlare di un altro”.

È vero che nel nostro Paese vivere di sola traduzione è molto difficile e che i traduttori sono spesso sfruttati e mal pagati?

“Io mi sento molto felice dentro la mia attività di traduzione: mi permette di traghettare nella mia lingua il mondo simbolico di un altro, che è per me una delle cose più stimolanti e allo stesso tempo liberatorie. Non mi sento sfruttata né ho pensieri affini. Alla tua domanda rispondo invece che il problema non è lì, bensì nel ruolo marginale che ha la letteratura e in genere l’arte in Italia. Penso che la metafora involontaria più precisa sia la gaffe dell’ex premier Giuseppe Conte, quando ha detto, parlando di fondi da stanziare, ‘ora pensiamo agli artisti, che ci fanno divertire’. Gli artisti non devono affatto divertire, non sono vibratori o PlayStation. Come diceva Kafka, ‘un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è in noi’. Il governo italiano non ha fondi per gli scrittori, al contrario di quasi tutti i Paesi civili, come ho potuto constatare nei festival letterari in giro per il mondo. Dal Canada all’Islanda passando per la più povera Estonia, non ho ancora incontrato un paese che non li preveda. Naturalmente, il ruolo marginale della letteratura e dell’arte è un problema mondiale, non solo italiano, ma qui è molto più pronunciato, anche per la profusione confusiva di libri scritti da non scrittori: purtroppo, nell’epoca delle narrazioni neoliberiste sul ‘puoi essere ciò che vuoi’, i limiti del sé si perdono e diventa tutto una gara all’essere di più. È un uso consumistico e vorace della vita e della propria identità, che nell’editoria di un po’ tutti i Paesi occidentali ha le sue conseguenze più patologiche”.

Negli ultimi anni il lavoro di traduzione è cambiato. Quanto incidono, secondo te, nello svolgere una traduzione le nuove possibilità offerte dalla rete?

“La rete offre le possibilità travolgenti di un serbatoio infinito, ma ovviamente anche il rischio di rimanere invischiati in una dimensione dove tutto è mescolato e livellato, senza criterio. L’affollamento indiscriminato di informazione e sproloquio, arte e sfogo, cancella la differenza, trasforma la libertà di accesso all’arte in una cella spesso aggressiva. Aveva ragione Umberto Eco”.

Recentemente si è aperto un dibattito su come rendere la lingua italiana più inclusiva e meno legata al predominio del genere maschile, si è pensato di introdurre il simbolo ə, schwa, al posto della desinenza maschile per indicare i nomi collettivi. Sei favorevole all’uso dello schwa nelle traduzioni in italiano?

“Credo proprio di sì. Ultimamente, per il primo numero della rivista cartacea de Linkiesta, ho scritto un racconto in cui la specificazione del genere è sostituita dagli asterischi. La non specificazione dà alla lingua una libertà di definizione che allarga a dismisura il mistero e la portata della creatività”.

Per descrivere la meraviglia di qualcosa che ti rende veramente felice quale lingua usi e perché?

“Scrivo e scriverò sempre e solo in italiano. Ma se sono molto felice faccio silenzio. Anche quella è una forma di traduzione”.

Gli uomini, un giorno, saranno così illuminati da inventare una lingua dove non ci sarà più posto per parole come: odio, razzismo?

“No, sono parole importanti. Tutto dev’essere definito, inclusi i crimini peggiori. Non possiamo cancellare le parole che designano il problema, solo adoperarci per eliminare il problema. Se siamo fortunati, diventeranno parole arcaiche e misteriose”.

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[Fonte Wired.it]