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mercoledì, Mar 03

Violenza online, per le vittime non basta introdurre nuovi reati



Da Wired.it :

Convenzioni internazionali, uso della tecnologia e coinvolgimento delle piattaforme sono necessari per proteggere le vittime della diffusione di foto e video intimi senza consenso

Hacker viola uno smartphone (Getty Images)
Hacker viola uno smartphone (Getty Images)

L’introduzione di un nuovo reato da sola rischia di non bastare a tutelare adeguatamente le vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo, detta impropriamente revenge porn. Occorre prevedere degli strumenti amministrativi paralleli che garantiscano la certezza dei rimedi e la rapidità della cancellazione dei contenuti illeciti. La vittima quando sporge querela per il reato di cui all’articolo 612-ter del codice penale chiede anche il sequestro preventivo del contenuto, ma la misura cautelare può risultare del tutto inefficace se nel frattempo il video è già stato condiviso e diffuso su altre piattaforme fino a diventare virale.

Ultimamente i principali social network rimuovono sempre più spesso in tempi rapidi i contenuti sessualmente espliciti segnalati dalle vittime, il problema ancora una volta sta nella velocità delle condivisioni sulle più svariate piattaforme, spesso meno collaborative e difficili da raggiungere. Quello che manca è ad esempio una convenzione internazionale per i diritti degli utenti della Rete, sulla falsariga di quella di New York per i diritti dell’infanzia del 1989, che venga ratificata da tutti i paesi del mondo.

Una rete internazionale

Prevedere ogni volta leggi diverse per ogni singolo Stato finisce per vanificare gli sforzi del legislatore nazionale, avendo la pretesa di arginare il mare col cucchiaio. Intanto, i social network non dovrebbero più giudicare su loro stessi ma dovrebbe essere approvato un codice di condotta universalmente riconosciuto da tutti gli Stati che preveda principi comuni per tutte le piattaforme.

È condiviso da tutti che sia illecito condividere contenuti sessualmente espliciti senza il consenso della vittima. Già dal 2013 la California si è dotata di una legge che sanziona penalmente il cosiddetto revenge porn, già reato nel New Jersey dal 2004, l’Italia è arrivata in ritardo nel 2019.

Dovrebbe essere poi un organismo regolatorio internazionale, con rappresentanti di tutti gli Stati aderenti, a giudicare sulle istanze provenienti dagli utenti, composto da esperti in materia, chiamati a ricevere e filtrare le richieste di cancellazione e in generale di intervento degli utenti. L’organismo dovrebbe decidere in tempi rapidi, nei casi più gravi per esempio entro 24/48 ore dalla ricezione dell’istanza, ingiungendo alle piattaforme di rimuovere il contenuto segnalato se ritenuto in contrasto col codice comunemente approvato. Il destinatario dell’ingiunzione dovrebbe poi rimuovere il contenuto al massimo entro le 24 ore successive. Se non lo fa, dovrebbe essere prevista una multa di importo tale da fungere da valido deterrente, sulla falsariga di quanto previsto in Germania dalla legge 18/12356 del 16 maggio 2017 in tema di cyberbullismo.

Il provvedimento di rimozione dovrebbe esse notificato anche all’utente autore del fatto oltre che al social network. Dovrebbe essere riconosciuto poi il diritto del social network e dell’utente di presentare memorie e istanze per riottenere la riabilitazione del contenuto rimosso che intanto però sarà già stato cancellato dal web e non più condivisibile. L’istanza dei social network e/o dell’utente dovrebbe essere valutata da un organismo superiore (così come accade per il Giurì della pubblicità che decide in forma gerarchica sulle opposizioni mosse alle pronunce del Comitato di controllo in tema di pubblicità).

Si potrebbe poi prevedere anche un ulteriore rimedio, rendendo impugnabili davanti al tribunale di ogni Stato membro i provvedimenti di ultima istanza dell’organismo regolatorio.

Tecnologia e diplomazia

I contenuti definitivamente rimossi dall’organismo dovrebbero essere poi catalogati con i loro identificativi mediante l’utilizzo di apposite soluzioni digitali, come il qr code o barcode. In questo modo ogni fotografia verrebbe scansionata digitalmente e avrebbe un identificativo univoco nel web che sarebbe inserito in un’apposita banca dati. Tutti i contenuti oggetto di rimozione non potrebbero più essere caricati da terzi utenti (salvo che la foto e/o il video non vengano modificati), come avviene già in molti casi di violazione del copyright. Si tratta di una sorta di barriera in ingresso preventiva che in concreto potrebbe rivelarsi efficace a tutela delle vittime. Gli strumenti tecnici per l’uso di queste tecnologie esistono già e sono in uso già da anni dagli stessi provider. La tutela amministrativa dovrebbe avere efficacia poi anche nei confronti dei motori di ricerca e l’eventuale decisione di rimozione del contenuto non dovrebbe avere limiti territoriali, dovendo valere per tutti i paesi del mondo.

Oggi invece le pronunce dei tribunali e degli organismi amministrativi, come il Garante per la protezione dei dati personali, si scontrano ancora troppo spesso con limiti di giurisdizione, che oggi non sono più accettabili.

Così, per esempio, è ancora possibile ottenere la deindicizzazione o la rimozione di un contenuto che vale per i territori dell’Unione europea, ma quello stesso contenuto sarà visualizzato collegandosi da un paese extra-Ue. È noto, poi che il semplice blocco dei Dns (domain name system) e l’ordine agli Isp italiani disposto in sede penale coi sequestri preventivi non sono strumenti efficaci a contrastare o prevenire i reati informatici, che hanno quasi sempre portata transnazionale.

Sono necessarie forme di collaborazione più efficaci, prendendo come modello anche la direttiva sul contrasto alla pedopornografia, oltre al sistema di autoregolamentazione visto prima. Oggi, poi, succede ancora che molti procedimenti penali per diffamazione aggravata commessa a mezzo social network vengano archiviati perché questi ultimi non collaborano con la polizia nazionale, non fornendo gli indirizzi Ip degli utenti perché negli Stati Uniti la diffamazione non è reato ma un illecito civile, con buona pace degli utenti degli altri Stati.

In ogni Stato poi dovrebbe esserci una sede dei social network con legittimazione a stare in giudizio e con referenti e contatti “umani” da poter raggiungere in caso di segnalazioni. I meccanismi di controllo dovrebbero essere trasparenti e verificabili dagli utenti.

Sul fronte nazionale, poi, lo strumento dell’ammonimento del Questore previsto per i casi di atti persecutori e di cyberbullismo potrebbe essere esteso anche al cosiddetto revenge porn. La legge a tutela delle vittime dei reati online in generale sconta un ritardo complessivo, che è la diretta conseguenza dell’incapacità del legislatore di stare al passo della tecnologia, che oggi non è più tollerabile e rende urgente una riforma organica a livello internazionale.

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[Fonte Wired.it]