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sabato, Mar 27

Willie Peyote e Pippo Civati hanno un problema col politicamente corretto



Da Wired.it :

Abbiamo intervistato l’insolita coppia dietro “Dov’è Willie?”, il libro-dialogo edito da People: si è parlato di come un certo conformismo culturale tarpa le ali della creatività, di polemiche post-Sanremo e della classe politica italiana, ma anche di tanto altro

(foto: Chiara Mirelli)

C’è Torino, e con essa il macrocosmo che ruota attorno all’orbita del capoluogo piemontese: la Juventus, il Toro, gli zarri delle periferie, le vacanze a Spotorno, ma non solo. In Dov’è Willie?, dialogo tra Willie Peyote e Giuseppe Civati edito da People, c’è soprattutto la vita di un artista in continua evoluzione che cerca di comprendere sé stesso mentre passa il tempo. E no, dei due non è il fondatore di Possibile. 

Nelle 140 pagine, Guglielmo mette da parte Willie Peyote e parla di sé stesso, di ciò che passa nella sua testa e delle scelte che ha fatto: dal licenziamento ai tempi del call-center fino al palco di Sanremo, ogni sua decisione è stata una rivendicazione, un manifesto di intenti che non tiene conto dell’opinione altrui.

A chi dei due è venuta l’idea di mettere su carta le vostre chiacchierate?

Giuseppe Civati: L’idea è venuta a me e in verità è in questo frangente che ho conosciuto per la prima volta Willie. Abbiamo un amico in comune, che noi chiamiamo Ippo, che ha cercato di metterci in contatto per anni e alla fine ci è riuscito. Nel libro ho cercato di lasciare tanto spazio a lui, anche perché un classico libro di interviste è poco leggibile ed è anche poco rap. 

 

Willie, quando l’Italia è entrata in lockdown tu avevi appena iniziato il tour. Nel libro spieghi che questo ti ha anche frenato nel processo creativo: qual è stato il percorso che ti ha portato dall’isolamento in casa al palco dell’Ariston?

Willie Peyote: È stato un percorso strano, molto alienante. Quello di cui voglio parlare, sia nel libro che in pezzi come “La depressione è un periodo dell’anno”, è che ho avuto paura dell’“andrà tutto bene”. A me questa retorica per cui dobbiamo trovare soluzioni a cose che non conosciamo spaventa molto. Questo discorso è presente anche nel brano di Sanremo: spesso rispondiamo a domande che non abbiamo capito.

 

Mai dire mai si apre con la citazione del monologo di Valerio Aprea nell’ultima puntata della terza stagione di Boris. Nel 2021, quali sono le musichette e qual è la morte? Ma soprattutto, esiste ancora la ricerca della “locura”?

WP: Il brano si apre con quella frase lì perché applicata a Sanremo è ancora più calzante del solito, quindi ho deciso di inserirla per l’impatto che avrebbe avuto. Da un lato posso dirti che “un paese de musichette mentre fuori c’è la morte” è esattamente l’Italia durante la settimana del Festival, soprattutto quest’anno. Sull’aspetto della “locura”, secondo me si sono un po’ sparigliate le carte: l’idea di svecchiare la tradizione di cui parlava Aprea nel monologo ha trovato una forma meno classica, nel senso che l’ha svecchiata senza rendere tradizionale ciò che non lo era. Noi tutti siamo usciti da Sanremo esattamente come eravamo entrati. Questo è un grande merito di Amadeus e della direzione artistica: hanno dato un’immagine molto più vera di quella vista in altre edizioni.

 

A Sanremo sei stato al centro delle polemiche per dei commenti su altri cantanti in gara. Per un artista in vista è così difficile dire sempre quello che pensa?

WP: Nel mio caso ho scelto un taglio poco comprensibile se estrapolato dal contesto in cui quelle frasi sono state pronunciate, quindi capisco che messe nero su bianco prendano un altro significato. Ho cercato di essere contemporaneamente dentro e fuori il sistema Sanremo (con le rubriche su La Stampa e Radio24, ma anche con le dirette Twitch), senza accorgermi che in quel frangente non si può avere questo doppio ruolo. Per il resto, ho cercato di chiarire privatamente con i diretti interessati, ma credo sia importante prendersi la responsabilità delle cose che si dicono, anche quando vengono fraintese e un po’ decontestualizzate.

 

Bilanciare ciò che si vuol dire e pericolo che qualcuno rimanga offeso è molto difficile: questo può essere un freno, tanto nella musica quanto nella politica?  

GC: Nel libro, che non è un trattato filosofico, ma offre spunti, analizziamo in modo approfondito questo tema. Non solo oggi non si può più dire nulla, ma è negata la comunicazione. Io posso parlare solo di un maschio bianco di 45 anni e borghese: se mi permetto di parlare di qualcosa di diverso da me, entro in un campo minato. Questo è legittimo dal punto di vista delle differenze, però non si può negare la relazione tra persone. Il testo di Willie a Sanremo era molto critico, ma se limiti questo potere di critica, allora limiti anche la creatività. Questo vale anche in politica, che è un ambito molto creativo. 

WP: Il punto è che si parla sempre per categorie. Mi hanno chiesto se pensassi di candidarmi con Possibile, come se non potessi parlare con Pippo senza un secondo fine. Non vorrei che passasse il messaggio che non accetto obiezioni, anzi! Il mio compito è quello di trovare il modo migliore per comunicare, quindi faccio tesoro di tutte le critiche. Il problema è che cerchiamo sempre di personalizzare le questioni. È come se io me la prendessi perché qualcuno parla di cosa è il rap secondo lui: ma sticazzi! In un’epoca in cui siamo tutti opinionisti pensiamo che ogni opinione sia un giudizio, ma non è così. Anche se mi dai del coglione non è un problema: avrai il tuo modo di vedere le cose, ma un’opinione è legittima, dai… 

 

Sempre nel libro spieghi che non vuoi essere il portavoce di nessuno: secondo te i fan hanno iniziato a comprendere questa cosa o vedono ancora una sovrapposizione?

WP: Mah, non tutti l’hanno capito, o meglio, non so quanto vogliano capirlo. La gente si sente orfana di una rappresentanza e quindi la cerca disperatamente. A me mette ansia questa continua ricerca, perché io stesso ho messo in discussione i miei idoli. Cercherò di spiegare finché posso che voglio solo essere me stesso. Cercheranno sempre dei simboli. Prendo come un complimento il fatto che scelgano me come portavoce ma combatto questa tendenza: possiamo parlare di tutto, ma insieme. Non sono qui per insegnare niente a nessuno. Sono disposto a cambiare idea, perché cazzo dovresti prenderti la mia?

 

Qual è il rapporto tra Giuseppe Civati (quello di tutti i giorni) e Pippo Civati (il personaggio pubblico)?

GC: In realtà le mie due personalità sono abbastanza sovrapposte. Non ci sono grandi differenze tra ciò che scrivo e che faccio e quello che poi sono tutti i giorni. Una cosa che non ho mai accettato è stata la logica del non si accettano lezioni da nessuno. Una frase da idioti: noi accettiamo lezioni e proprio per questo cerchiamo di agire e di conversare. Recentemente ho fatto una battuta sull’intervista al Generale Figliuolo da Fazio e sono stato sommerso da una shitstorm da parte dei suoi amici, che non sapevo nemmeno esistessero. Cerco di essere sempre sincero: se devo fare una battuta non resisto, ma cerco di non essere greve, anche se delle volte mi prendo delle critiche feroci. Una volta Di Battista disse che io sono “la mafia”. Mi chiamò mia mamma preoccupata… ecco, questo magari supera un po’ la barriera del rispetto.

 

E quello tra Guglielmo e Willie? 

WP: Il contesto ci impone delle regole sia verso il nostro pubblico che verso quello altrui. I miei pensieri sono quelli che emergono dai miei pezzi. In un contesto come Sanremo tutto diventa scena. Penso sia la stessa sensazione che ha provato Pippo quando era parlamentare: tutto quello che dici viene fuori come detto in una certa veste, facendo perdere tutte le sfumature tra persona e personaggio. Sono in difficoltà perché di me si sta parlando troppo, ma spero che dal libro traspaia che in ciò che faccio non ci sono secondi fini per la classifica o cazzate simili… non me ne frega un cazzo di arrivare da nessuna parte. Sono la stessa persona dentro e fuori dai dischi. 

GC: Se posso aggiungere una cosa: c’è molta intimità nel nostro dialogo, intimità intesa come rapporto tra le due parti di noi stessi. Abbiamo parlato di temi tabù come il sentirsi depressi o un po’ sfigati, senza scadere mai nel gossip.

WP: Il fatto è che nel pubblico manca un passaggio: nel momento in cui ti vedo come personaggio, allora ti voglio sempre così. In realtà quando scendo dal palco vorrei staccare un po’ da ‘sto cazzo di lavoro! Il mio obiettivo è quello di far capire che sono senza orpelli: a Sanremo ero vestito in modo abbastanza ordinario perché io sono così e basta.

GC: Quest’ultima frase può essere da titolo, eh…

WP: Tu lo dici perché sei un editore, maledetto!

 

Quali sono i riferimenti politici di WIllie e quelli musicali di Giuseppe?

WP: Non so risponderti con precisione. Mi definisco una persona di sinistra perché banalmente ho sempre votato da quella parte della barricata, ma non ho dei veri e propri riferimenti. La mia idea politica si è formata alle superiori con Che Guevara. Ricordo che rimasi molto colpito dalla sua frase “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”. Mi piace la politica, ma non scelgo mai un simbolo.

GC: Questa cosa di non scegliere capi è stato un mio problema in politica! Musicalmente però amo variare: ultimamente sto ascoltando il Don Giovanni di Mozart, forse per uscire anche dal loop di Musica leggerissima. Tra l’altro io sono amico di Willie, ma mi memizzano con la canzone di Colapesce e Dimartino… va a capire perché. Mi piace molto la musica italiana, anche la trap, che può essere intergenerazionale. Mai dire mai secondo me è molto trasversale, rispetto ad altre canzoni in cui si vede che i cantanti hanno coltivato il loro orticello.

WP: Ecco, questo tema della trasversalità è al centro della mia idea di politica: non possiamo parlare per corporazioni. Non è vero che i giovani parlano solo ai giovani e i vecchi solo ai vecchi. Io mi trovo sempre nel mezzo: tra analogico e digitale, tra nuovo e vecchio… e che cazzo, diamo un po’ di dignità a ‘sto mezzo!

 

L’ultimo capitolo di Dov’è Willie? si chiama “la fine del sex appeal della sinistra”. Ora è tornato Enrico Letta. Giuseppe, tu che sei stato l’unico a intervenire in sua difesa nel 2014, quando Renzi lo sostituì alla guida del paese, pensi che sia il profilo giusto per far tornare la sinistra progressista ad avere un ruolo importante nella società?

GC: Beh, forse il sex appeal non è la sua dote migliore, però può mettere un po’ di ordine. Non sono preoccupato da lui, che stimo e stimavo anche quando non gli votai la fiducia perché stavano facendo il governo con Berlusconi, quanto dal fatto che gli altri siano sempre gli stessi: Dario (Franceschini)è rimasto, Debora (Serracchiani) è rimasta… è rimasto anche Nicola (Zingaretti), nonostante la sua lettera di dimissioni sia stata talmente dura da far pensare a un addio al Pd. 

WP: Mi intrometto per evidenziare la tendenza italiana a preferire qualcuno che metta ordine. Anche Draghi è stato nominato per fare questo, ma secondo me serve un decisore. Per fare un esempio, Churchill è stato aspramente criticato, ma ha portato avanti battaglie importanti e per questo è passato alla storia. Forse non siamo più abituati a politici che si prendano responsabilità per scelte anche impopolari. Abbiamo bisogno di una classe politica o di qualcuno che faccia le pulizie?

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[Fonte Wired.it]