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Grazie a 89 nuove ore di video di sei diversi habitat, stiamo tracciando dettagliate mappe di quel 74% di fondali oceanici rimasto inesplorato. Grazie a una troupe di leoni marini. Dalla sabbia “nuda” alle praterie di alghe, i primi risultati di questo studio dei fondali oceanici sono comparsi su Nature, compresi di informazioni inedite sulle specie ospitate. A ottenerle sono stati alcuni ricercatori del South Australian Research and Development Institute di West Beach ma un po’ di merito va anche ai leoni marini e all’intelligenza artificiale. Sicuramente quello di aver raggiunto una parte di “inesplorato”, aree che custodiscono informazioni importanti sia per la conservazione dell’ambiente marino, sia per la navigazione e la previsione di pericoli, tsunami in primis.

Una troupe di leoni marini selvatici

L’arruolamento di questi animali è stato essenziale per raggiungere gli habitat offshore particolarmente profondi e remoti vicino alla costa meridionale dell’Australia. La pressione estremamente elevata e i livelli di luce bassi tipici di queste aree rende infatti irrealizzabili (o troppo costose) le normali indagini condotte lasciando cadere telecamere da una nave, o affidandosi a veicoli subacquei comandati a distanza.

Molto più efficace attaccare i sensori sulla schiena di otto femmine adulte di leone marino australiano selvatico con un semplice cerotto di neoprene, contando sulla loro fame e sulla loro capacità di nuotare. Questa specie, infatti, nota agli esperti come Neophoca cinerea, è una assidua frequentatrice di fondali profondi:  nella sezione più remota dell’oceano che si estende dalla linea di costa, spera di trovare più cibo. Noi non siamo in grado di confermare se sia o meno vero, essendo una delle zone di cui non abbiamo ancora molte informazioni, soprattutto in merito alla morfologia e alla distribuzione dei diversi habitat.

AI e natura nuotano assieme

Senza lasciare alcuna traccia, a fine “missione” i cerotti sono stati rimossi e i leoni marini sono tornati a nuotare senza quasi nemmeno accorgersi di essere stati i protagonisti di una missione storica. Il “kit” con cui giravano, composto da localizzatori gps, telecamere e sensori di movimento, pesa infatti meno dell’1% del loro corpo ed è stato studiato per non ostacolarne il movimento.

Il bottino video da loro conquistato, è stato intanto dato in pasto a un modello di intelligenza artificiale in grado di estrarne le informazioni più utili. Allenata a capire il mondo con immagini di come lo vede un bambino, ora questa tecnologia ci sta aiutando a comprendere la disposizione dei fondali marini.

Già dai primi output, i ricercatori hanno subito colto quanto potrebbe essere prezioso questo nuovo metodo di raccolta dati nelle profondità marine. Oltre che per conservarne la biodiversità, anche per ottimizzare la gestione della navigazione e la previsione di eventi estremi come gli tsunami. E per migliorare l’accuratezza del modello di apprendimento automatico stesso, già ora stata stimata pari all’98%.

Col tempo, si potranno ottenere informazioni ancora più precise e varie e già si pensa ad affidare nuovamente i sensori ai leoni per studiare come fattori quali profondità e apporto di nutrienti influenzino la distribuzione degli habitat e la biodiversità sul fondo marino. Il binomio natura e tecnologia sembra quindi aver aperto numerose strade alla ricerca, mostrando che quella della collaborazione tra questi due mondi sia l’unica percorribile per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità che ci siamo (o ci hanno) imposti.



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