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“C’è un vecchio detto secondo cui il giornalista straniero che viaggia in Medio Oriente rimanendoci una settimana, torna a casa per scrivere un libro in cui presenta una soluzione definitiva a tutti i suoi problemi. Se rimane un mese, scrive un articolo su una rivista o un giornale pieno di “se”, “ma” e “d’altro canto”. Se resta un anno, non scrive assolutamente nulla“. A riproporre l’aneddoto è Lorenzo Kamel, storico dell’università di Torino, nonché massimo esperto di Medio Oriente, come cornice per avvicinarsi alle parole che scrisse uno dei più venerati giornalisti italiani del Novecento a proposito di Israele: Indro Montanelli.

All’epoca Montanelli, in qualità di inviato per il Corriere della Sera, pur senza parlare una parola di ebraico o di arabo e senza aver mai vissuto in quei luoghi, decise di partire per raccontare la Palestina. Allora erano trascorsi appena dodici anni dalla proclamazione dello Stato israeliano, e l’attività bellica e diplomatica mossa dal paese appena nato già destava molte preoccupazioni sia nei cattolici e sia nei comunisti italiani.

Anche se aveva affermato in precedenza che “ci doveva pur essere un segreto che spiegasse il miracolo ebraico”, Montanelli sosteneva di non avere intenzioni celebrative quando nel 1960 scrisse Reportage su Israele. Poi, però, la visione dell’autore rimase subito folgorata dal pionerismo e dall’abnegazione dei suoi abitanti, nonché, dall’idea di progresso che era stata portata avanti dai coloni. Oltre che a un certo disgusto verso i palestinesi:“Finalmente ho capito perché gli arabi odiano tanto gli ebrei. Non è la razza. Non è la religione, che li sobilla contro di essi. È l’atto d’accusa, è la condanna, che gli ebrei rappresentano, agli occhi di tutto il mondo, qui nelle loro terre, contro la loro ignavia, la loro mancanza di buona volontà, d’impegno nel lavoro, di entusiasmo pionieristico, d’intelligenza organizzativa”.

Propaganda ante-litteram

La scoperta di Israele di Montanelli consolidò subito varie leggende che avrebbero alimentato in seguito i settori più aggressivi della propaganda pubblica di Israele (la cosiddetta hasbara): “Israele, finché è stato un paese arabo… [era] una landa brulla e assetata, senza un un seguito di colline gialle e pietrose, su cui le capre avevano divorato fin l’ultimo filo d’erba e di cui gl’incontrastati signori erano i corvi e gli sciacalli”, spiegava il giornalista. “Di zone cosiffatte nel paese ce ne sono ancora, intendiamoci, qua e là, a chiazza. Sono quelle in cui gli arabi sono rimasti.”

Montanelli non si fece problemi a raccontare una storia dei coloni del tutto inventata: “Non occuparono le terre di nessuno. Comprarono, spesso a prezzi esosi, quelle incolte dei latifondisti arabi, ridotti a pietraie dalla voracità delle loro capre”. Svilì la questione dei profughi, definendo i palestinesi come vittime dei soli Stati arabi e strumentalizzati dalla sinistra. Fuori dalla “meravigliosa avventura umana” di Israele, insomma, nell’ “autentico miracolo“, come lo definiva Montanelli, c’erano solo le “cimiciaie spaventose” degli arabi, dove “il loro aratro ancora a chiodo si limita a grattare la superficie della terra… e le loro capre divorano sul nascere ogni accenno di vegetazione. Essi non sono affatto «i figli del deserto»… Ne sono i padri”.



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